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Messaggi Don Orione
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Nella foto: Arrigo Minerbi davanti al volto della Madonnina di Monte Mario.
Autore: GIOVANNI MARCHI
Pubblicato in: MESSAGGI DI DON ORIONE, n. 106, anno 33, 2001, p.33-56.

La testimonianza di un grande artista che, pur non avendo conosciuto direttamente Don Orione, ne rimase conquistato dalla grande personalità lasciandone un ricordo in una delle sue più significative creazioni. La testimonianza di un grande artista che, pur non avendo conosciuto direttamente Don Orione, ne rimase conquistato dalla grande personalità lasciandone un ricordo in una delle sue più significative creazioni.

ARRIGO MINERBI: UN GRANDE SCULTORE DEL NOVECENTO
(Ferrara 1881 – Padova 1960)

Giovanni Marchi

 

Allegati due testi di Arrigo Minerbi:
    Appendice I: “Com’è nato il mio Don Orione morente”
    
Appendice II: La medaglia di Don Orione, la “piastrina del soldato”

Vedi: Una storia bella nella tempesta della shoah

 

Per una prima ed essenziale conoscenza dello scultore Arrigo Minerbi, possiamo leggere le note autobiografiche, da lui stesso preparate nell’agosto 1932 per l’Agenzia Stefani.

«Sono il 6º di nove fratelli. Mio padre era un modestissimo negoziante di stoffe. Nessun precedente artistico nella famiglia. Infanzia serena, adolescenza pensosa, uguale senza scosse.
Fin dove giungono i miei ricordi, ho la creta e il gesso nelle mani.
Agli studi classici ho dovuto rinunciare per mancanza di mezzi. E per mancanza di mezzi ho rinunciato agli studi accademici.
Fatti i primi corsi alla scuola d’arte e mestieri di Ferrara, mia città natale, partii per Firenze nel 1901 a 20 anni, senza un soldo. Ho fatto il ceramista, lo stuccatore, il modellatore ma non ho mai concesso alcuna dedizione al gusto del cliente o dei negozianti d’arte.

Per 15 anni ho lavorato da artigiano dedicando al mio sogno d’arte le poche ore libere delle mie giornate, e le mie notti. E solo nel 1919 feci la mia prima esposizione personale alla Galleria Pesaro di Milano.
E poiché nulla rimase delle mie opere giovanili, perché tutto, o quasi, fu da me distrutto, parve la mia, una rivelazione.
Dal 1919 a oggi ho esposto, in tutto, sette volte. Due a Milano, due a Ferrara, una volta a Firenze, una alla Biennale Veneziana, una a Bruxelles.
L’Autoritratto che è agli Uffizi è del 1915.
Del 1917 il Battisti del Museo di Trento.
Del 1918 il Mattino di Primavera della Galleria d’Arte Moderna di Roma e la Vittoria del Piave (Monumento ai Caduti di Ferrara).
L’Annunciazione per la raccolta Vercelli è del 1920. Del 1923 la Madre dei caduti a Bondeno. Del 1924 il Monumento ai Medici Italiani caduti in guerra, al Chiostro della Sanità Militare, a Firenze.
Del 1926 il Santo Francesco che predica agli uccelli del Cimitero Monumentale di Milano. Dal 1926 al 1931 ho eseguito l’ Ultima Cena per la raccolta Pasquinelli, La Maternità del monumento a Luigi Mangiagalli, la Dormiente del Campo Verano.
Sono membro onorario dell’Accademia di Brera dal 1920.
Per Sovrana concessione, Commendatore della Corona d’Italia dal 1924 con questa motivazione: «per avere il Minerbi concepito con nobiltà d’intendimenti e plasmato con rara perizia il Monumento eretto in Firenze ai Medici caduti in guerra, insigne opera d’arte destinata a tener vivo nelle future generazioni il culto della Patria e del Dovere».

Arrigo Minerbi (2) morì in una clinica di Padova l’11 maggio 1960. Nato a Ferrara nel 1881, frequentò da giovane i corsi d’arte e mestieri e lavorò come decoratore a Ferrara, Firenze e Genova. Fra le sue prime opere è un gigantesco Nettuno in cemento a Monterosso.
Lasciata Genova, dove aveva eseguito anche qualche fontana, venne a Milano e nel 1919 si rivelò con una mostra personale alla Galleria di Lino Pesaro che gli era parente e che lo aiutò ad affermarsi. Esponeva accanto a lui, nelle sale di via Manzoni, il pittore Ugo Martelli, una specie di fauve nostrano, mistico, tenero e acceso, violento. Tutto il contrario di Minerbi, che era pure mistico e sentimentale, ma in modo assolutamente diverso; vale a dire con un gusto della forma chiusa in decorativa armonia e lisciata fino a fare sparire le qualità del marmo.
Erano i tempi in cui si parlava ancora di Leonardo Bistolfi, di Pietro Canonica, di Domenico Trentacoste; e il vero e proprio Liberty era già sparito per far posto a creature più semplici e naturali, sebbene ancora formalmente sempre un po’ gracili. Arrigo Minerbi sentì anche lui, in qualche modo, di dover tornare a una scultura dello spirito, dopo i formalismi del Liberty, dopo le prepotenze o le impotenze dell’impressionismo, dopo gli eclettismi più o meno delicati dei Canonica o dei Rousseau. Nutrito com’era di Pascoli e di Gozzano, gli fu abbastanza facile attirare l’attenzione del pubblico borghese: qualcosa di addolcito e di musicale nella materia, un virtuosismo tecnico notevole, l’abitudine a presentare con cura i volumi giovarono all'espressione pratica e quasi al culto del patetico e d’un languido dolore. Per un verso, la sua arte poté essere accostata a quella di Adolfo Wildt, e per un altro a quella di Pietro Gaudenzi.

Fra le opere che gli dettero fama da ricordare: una corrucciata e addolorata Vittoria sul Piave – esposta nel 1919 – a simboleggiare le ingiustizie di Versailles; Mattino di primavera (Galleria d’Arte Moderna di Roma), Mia Madre del 1913 (Galleria d’Arte Moderna di Milano), l’ Autoritratto del 1915 (agli Uffizi), il Cesare Battisti del 1918 e il Fabio Filzi (entrambi al Castello di Trento), il Monumento al medico di guerra (a Firenze, alla Scuola di Sanità Militare), il San Francesco che predica agli uccelli (Tomba Cusini, al Monumentale di Milano), Ultima cena, d’argento (per la famiglia Pasquinelli di Milano, poi acquistata dalla cattedrale di Oslo), l’altorilievo della Maternità (Istituti Clinici Mangiagalli, a Milano), la Pietà Marzotto (a Valdagno), il Don Orione morente (al Piccolo Cottolengo milanese in marmo e al Santuario della Madonna della Guardia a Tortona in bronzo), la Porta del Duomo di Milano (1948) con L’Editto di Costantino, l’enorme statua della Vergine, Regina dell’Universo (una a Roma e una a Boston), l’alto San Francesco che apre le braccia (a Milano, nello spiazzo oltre Corso Concordia), e vari ritratti, fra cui quelli di Previati, di Grubicy e della Duse, che ornava il ridotto del teatro Manzoni a Milano prima della guerra e che passò poi al Museo della Scala. Le persecuzioni razziali interruppero fama e onori per Arrigo Minerbi, che dovette nascondersi e che riapparì quando ormai il suo gusto e il suo stile appartenevano a un preciso momento passato”.


LO SCULTORE DEL DON ORIONE MORENTE

Gli Amici di Don Orione, alla sua morte, avvenuta a Sanremo il 12 marzo 1940, per impegnarsi a seguire sempre meglio gli esempi di bontà e di carità di Don Orione, pensarono di riprodurne il volto in un’opera d’arte e chiesero allo scultore Minerbi di eseguire un suo busto. La trattativa si svolse da parte dei committenti, Gina e Giannino Bassetti, e lo scultore fu accompagnato al Piccolo Cottolengo di Milano, nell’antica piccola sede del Restocco. (3)

Lo scultore si mise al lavoro ed eseguì lo straordinario monumento che si può ammirare nell’originale in marmo nella cappella del Piccolo Cottolengo di Don Orione di Milano e in bronzo nella cripta del santuario-basilica della Madonna della Guardia a Tortona.
È straordinaria questa testimonianza degli Amici che vogliono avere subito le sembianze di Don Orione e la pronta adesione dello scultore ebreo, che li capisce e ispirato esegue ciò che desiderano. Così Minerbi divenne uno dei primi Amici di Don Orione, fondati dal senatore Cavazzoni subito dopo la morte di Don Orione, nelle cui case trovò rifugio nei terribili anni di guerra e di persecuzione.
Don Sterpi lo nascose prima nella sua casa paterna di Gavazzana, vicino a Tortona, e poi lo fece trasferire a Roma, dove, scrisse Don Piccinini, «Minerbi giungeva a salvamento proprio la sera (sarà lo stesso Minerbi e la “donna forte”, che Dio gli aveva dato, a farne memoria) dell’8 dicembre 1943, quando era ancora acuto e vivido, in piazza di Spagna, attorno all'Immacolata, l’olezzo delle candide corolle, irrorate quella volta, più che in altre, da lacrime di ansia e di trepidazione. Uno sventurato fratello dello scultore, che lo aveva esortato a fuggire con lui in Svizzera, mentre egli gli proponeva Roma, sorpreso sulla linea di confine, vi aveva trovato la morte, mentre uno dei fratelli, prima messo in carcere, morirà in un campo di concentramento». (4)

Nel dossier Giannino e Gina Bassetti, oltre a due lettere di riconoscenza per loro di Don Fausto Cappelli, allora direttore del Piccolo Cottolengo Milanese, e una di gratitudine e di poesia di Arrigo Minerbi per il dono di finissima biancheria di candido lino, ce n’è una dell’11 ottobre 1941 agli stessi, dopo aver ricevuto l’onorario per la statua del Don Orione morente, da trascrivere per intero, per l’intensa suggestione che trasmettono le sue righe.

«A Giannino e Gina Bassetti.
Oggi ricevendo la somma che avete voluto inviarmi a saldo con tanta cortese sollecitudine, ho dovuto convincermi che avevo proprio finito di lavorare per Don Orione.
E la ormai consueta tristezza dell’ora che segue l’opera compiuta, mi riprende e mi tiene; poche opere hanno saputo darmi come questa un compenso spirituale così alto e profondo, e poche sono le mie creature concepite e create con tanta sicura certezza e con tanta commozione.
Voglio dire una cosa: una parte non lieve di questa commozione mi è venuta da Lei Signora Gina. Mi ha donato profondamente la Sua fede, la Sua sicurezza nella riuscita dell’opera, la Sua generosa adesione alla mia proposta di fare la statua in luogo del busto. E profondamente mi commuovono oggi le parole del Suo Giannino e le Sue.
Grazie a entrambi.
Ho fatto del mio meglio per essere all’altezza del compito.
Il marmo del Don Orione morente è ormai vostro. Disponetene come e quando vorrete. E rimanga questa mia lettera nell’archivio della nuova chiesa di Don Orione a ricordare ai devoti il nome dei generosi donatori. Il vostro Arrigo Minerbi».

Bisogna ricordare la bellissima rievocazione Com’è nato il mio “Don Orione morente” dello stesso Minerbi, che abbiamo riprodotta per intero in Appendice I, per la sua importanza e bellezza. (5) È una cronistoria commossa dello scultore sulla preparazione, sul progetto ispiratore e sul lavoro di esecuzione del Don Orione morente, con osservazioni sul lavoro quotidiano di conoscenza e di comprensione dell’uomo e del santo, di penetrazione del mistero della vita e dell’opera e di trasfigurazione attraverso l’arte, che gli ha permesso di darne il ritratto fisico, perfetto nei particolari e nell’insieme, e nello stesso tempo il movimento dell’anima, che consiste nell’affidare non solo ai Figli ma anche agli Amici e al più ampio numero di laici la sua eredità, con la destra che benedice e con la sinistra che tiene il crocifisso, come un condottiero che impugna una spada.

A complemento della visione che Minerbi trasmise di Don Orione, si deve citare ancora un discorso del 7 dicembre 1943, che è in archivio col titolo Minerbi da Milano a Roma San Filippo, in cui lo scultore racconta della medaglia di Don Orione, progettata e fatta di nascosto a Roma al San Filippo negli ultimi mesi di guerra, che avrebbe dovuto costituire per i religiosi orionini come la piastrina del soldato e che abbiamo intitolato La medaglia di Don Orione, la “piastrina del soldato” (Appendice II). Il bozzetto della medaglia appare in un quadro che fa bella mostra di sé nel corridoio della Curia Generale dell’Opera Don Orione in Roma. Minerbi accenna infine al tentativo che fece di scolpire il busto di Don Orione e di avervi rinunciato per l’impossibilità di riuscire a riprodurre i suoi occhi da vivo.


LA MADONNA "SALUS POPULI ROMANI"

Gli Amici di Don Orione di Roma, fra cui c’erano Riccardo Moretti, Ferruccio Lantini, padre Stefano Ignudi, Alfonso Bartoli, Vincenzo Ceresi, Don Brizio Casciola, Leone Castelli, Carmine Caiola, Gabrielli, Ferlosio, Scavizzi, La Pira, Lolli, De Leva, Ceccarelli, Matta, animati dal Direttore della Provincia SS. Apostoli, Don Gaetano Piccinini, preside dell’Istituto San Filippo Neri in via Appia Nuova, dopo il secondo terribile bombardamento di Roma, il 9 agosto 1943, fecero voto alla Madonna di celebrarla degnamente con rinnovato impegno di vita cristiana e con opere di carità e di devozione, appena fosse finita la guerra.
Nella festa dell’Immacolata del 1943 giungeva al San Filippo Neri in incognito, sotto il nome di Arrigo della Porta, lo scultore Arrigo Minerbi, inviato da Don Sterpi da Milano per salvarlo dalla caccia agli ebrei. E a lui si penserà di affidare il compito di plasmare nel metallo le sembianze della Madonna che verrà posta alcuni anni dopo su Monte Mario a protezione di Roma.

Arrigo Minerbi divenne da allora lo scultore delle Madonne di Don Orione, che potrebbe ripetere col suo Manzoni: «Tanto piacque al Signor di porre in cima/questa fanciulla ebrea». Cominciò con un medaglione che Don Piccinini sistemò sul muro di fronte al Ministero della Pubblica Istruzione in Roma (dove si può ancora ammirare in Viale Trastevere), proseguì con la Madonna Regina dell’Universo, in varie copie piccole (di cui ricordiamo quelle di Milano, di Copparo, di Terracina, ora inviata in Argentina, e una donata al papa Pio XII in udienza particolare a Castel Gandolfo) e in due grandi copie dorate, di circa dieci metri, una che vigila da Monte Mario sulla città di Roma, e l’altra da Orient Hill sulla città di Boston, porta d’ingresso degli Stati Uniti. Minerbi aveva già cantato con significativa continuità la gloria di Maria, dall’ Annunciazione del 1920 alla Madre Dolorosa nella Cappella Marzotto del 1936, all’ Assunta della Chiesa delle Grazie a Milano, per concludere con la Corredentrice abbracciata alla Croce, piantata nel suo cuore, come notò Don Ignazio Cavarretta.

Alle 19 circa del 4 giugno 1944, le truppe alleate cominciarono a entrare nella città eterna, senza trovare la minima resistenza da parte dei tedeschi, che pure s’erano preparati a resistere a oltranza. Confermò Don Piccinini: «Lo scambio degli eserciti, per misericordia di Maria e per l’opera del papa avveniva senza che la città santa avesse menomamente a soffrirne». (6)
Come risposta al proposito degli Amici di Don Orione, la Madonna dispose che sorgesse per vie straordinarie una grande opera benefica per le vittime della guerra più innocenti e indifese, ossia una prima grande casa per i bambini orfani e poi un’altra per i mutilatini, alla Camilluccia, su a Monte Mario, negli edifici della ex G.I.L. Si pensò allora di porre un segno tangibile, una grande statua della Madonna su quel colle, impareggiabile belvedere sulla città di Roma. E lo scultore Minerbi, in gratitudine per la salvezza che gli era stata offerta in Roma negli anni della persecuzione, promise: «Datemi del rame e ve la farò io la statua».

Nacque fra gli Amici una nobile gara per cercare il rame occorrente e si fece ricorso per stimolare le offerte alla lettera che Don Orione aveva scritto nel 1930 per la questua delle pentole rotte per la statua della Madonna sul santuario della Madonna della Guardia di Tortona: «Vi cerco le pentole rotte! Sentite: non avete in casa qualche vecchia pentola e qualche pignattone di rame, che non ne fate più niente? Qualche caldaia rotta, calderini, padelle, casseruole, tegamini, scaldaletti? Qualche marmittone da regalarmi per fare la statua della Madonna? Non avreste dei mestoli, schiumarole di rame, catini, secchi, pompe rotte da solfato, monete di ramo fuori corso? Prendo tutto».

Don Piccinini ha raccontato la storia affascinante, che ha del miracoloso, della costruzione della statua, del trasporto da Milano a Roma, della ricerca della ditta che avrebbe dovuto alzarla a tanta altezza, di tutte le difficoltà burocratiche e politiche superate. (7)

«Tutto era pronto e la Madonna avrebbe potuto affacciarsi benedicente su Roma l’8 dicembre 1952, ma vennero le difficoltà della coda, come sempre la più dura a scorticarsi. Si dovette avere pazienza per tutto dicembre 1952 e gennaio, febbraio, marzo 1953! E fu proprio disposizione di Dio perché quella statua votiva degli Amici si elevasse nel cielo di Roma proprio alla gloria delle campane di Pasqua, 5 aprile 1953, quando nei templi l’inno dell’Alleluja sarebbe risuonato con le parole date in tema all’artista: “Quae sursum sunt querite. Quae sursum sunt sapite, non quae super terram”. “Cercate le cose di lassù. Siate pieni delle cose di lassù, non di quelle che sono sulla terra”. Ed era pur l’ora del meridiano saluto degli angeli alla loro sovrana, ormai troneggiante sul più alto colle di Roma: “Regina Cœli laetare, alleluia”». (8)
Per la “Madonnina”, come fu subito chiamata riprendendo l’affettuoso diminutivo dei milanesi per la statua dorata che si erge sulla più alta guglia del loro duomo, lo scultore volle trarre le sembianze della Vergine dal volto della Sacra Sindone, dandole un’espressione assorta e partecipe che si rivela anche nel gesto delle braccia, una rivolta al cielo e l’altra alla terra, per esprimere insieme fede e carità, con un atteggiamento nuovo nell’interpretazione di Maria regina dell’universo, un vero capolavoro della scultura del nostro tempo.
La statua alta dieci metri poggia su un plinto di base in cemento, che contiene all’interno un gran deposito d’acqua, cui fanno corona i tipici pini romani ed è diventata con gli anni un punto di riferimento della città, ripresa e rilanciata in televisione tante volte in occasione delle partite di calcio e delle gare di atletica allo stadio Olimpico, una visione d’oro nell’orizzonte romano, segno di speranza e di unione fra la terra e il cielo, fra la città degli uomini e la città di Dio.
Nel 1954 Arrigo Minerbi pubblicò una monografia delle sue opere, Pensieri – Confessioni – Ricordi, Milano, Casa Editrice Ceschina, aggiungendovi, come scrive nella Prefazione «alcuni scritti, lettere, episodi che completano, con la conoscenza intima dell’autore, la comprensione della sua Arte.
Arte semplice, chiara, senza ermetismi e ritorni a remotissime forme, nella sola ricerca di aggiungere una nota intima, pensosa, personale alla sinfonia della natura umana, che egli adora nella sua forma più nobile.
E lungi dal rifuggire dalla “bellezza” come vorrebbero i dogmi moderni, egli la cerca, la fa sua e vuole che la Creatura del suo sogno si riveli, pianga, parli, racconti di sé insomma, ma senza gesti incomposti, con voce leve. In profondità.
Questo ha cercato per cinquant’anni, e ha lavorato in silenzio, ritirandosi dalle competizioni artistiche appena rivelato al gran pubblico negli anni 1919-1930».


N O T E
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Giovanni Marchi, già professore di lingua e letteratura francese all'Università La Sapienza, Roma, presidente degli ex allievi di Don Orione.

1. A. Minerbi, Pensieri – Confessioni – Ricordi, Milano, Casa Editrice Ceschina, 1954. F. Scarpelli, Artisti contemporanei: Arrigo Minerbi, su «Emporium», agosto 1931-IX, N. 440, p. 67-83 con 23 illustrazioni. E. Cozzani, Giovanni Costanzi rievocato accanto a Gesù. Con riproduzione de L’Ultima cena (in argento) nel suo insieme e in cinque particolari sulla rivista «Trentino». G. Piccinini, Roma tenne il respiro, Roma, 1953. A. Baratti, “L’Assunta” di Arrigo Minerbi, su «L’Osservatore Romano», del 31. 7. 1942. L. B., Si è spento a Padova lo scultore Arrigo Minerbi, «Corriere della sera», del 12 maggio 1960. Giornale di Ferrara del 12 maggio 1960. Ricordo di Arrigo Minerbi, da un ritaglio di un giornale di Milano («L’Italia») di venerdì 13 maggio 1960, senza firma, ma di Don Ignazio Cavarretta, che lo riprenderà nel Foglietto mensile del Piccolo Cottolengo di Don Orione di Milano, giugno 1985. E. Bemporad, Uomo generoso, artista sommo. Ricordo di Arrigo Minerbi nel trigesimo della morte, «Gazzetta Padana» del 9 giugno 1960. [Presenta le opere e gli scritti con cui l’autore le commenta nel suo volume Pensieri – Confessioni – Ricordi, Milano, Casa Editrice Ceschina, 1954, con riferimento costante alla sua città di nascita, Ferrara.]. I. Cavarretta, Lo scultore Arrigo Minerbi a 25 anni dalla morte, Foglietto mensile del Piccolo Cottolengo di Don Orione di Milano, giugno 1985. V. SGARBI parla della Maternità/Annunciazione della raccolta Marzotto in un articolo su Oggi dell’aprile 1994. Una luce a Monte Mario, a cura degli Ex Allievi, Roma, 1994. G. Marchi, Arrigo Minerbi scultore del Don Orione morente e La Madonnina di Don Orione a Monte Mario, in G. M., Don Orione e il coraggio del bene, Borgonovo Val Tidone (PC), Scuola Litotipografica Don Orione, 1995, pp. 144-152.

2. Articolo apparso sul «Corriere della sera», del 12 maggio 1960, molto informato, intitolato Si è spento a Padova lo scultore Arrigo Minerbi, siglato con le iniziali L. B.

3. Minerbi ne parla in una lettera del 6 febbraio 1942 a Don Luigi Orlandi.

4. Gino Minerbi, che Don Ignazio Cavarretta ricordava che fu anche lui nascosto nelle case di Don Orione in tempo di persecuzione.

5. È stata presentata come conferenza prima al San Filippo Neri di Roma, quando Minerbi vi era nascosto durante la fine della guerra, e poi a Milano in un incontro degli Amici di Don Orione, come afferma espressamente l’autore all’inizio del testo.

6. Cfr. Roma tenne il respiro, Roma, 1953, pp. 121-122.

7. Si possono leggere nel volume già citato, Roma tenne il respiro, e in una più recente pubblicazione sul cinquantesimo dell’Istituto Don Orione alla Camilluccia, a cura degli Ex Allievi, Una luce a Monte Mario.

8. Ivi, p. 348.

 

 

 

 

 

APPENDICE I

ARRIGO MINERBI
“Com’è nato il mio Don Orione morente”

A Gina e Giannino Bassetti con affettuosa riconoscenza 1946

Nel mio lungo esilio romano, ospite di Don Orione nell’Istituto di San Filippo Neri, in comunione quasi fraterna con chierici e Sacerdoti, ho avuto campo di convincermi che l’Arte, e soprattutto il mestiere che all’Arte conduce, sono vere lacune nella quasi totalità del Clero.
Accolsi dunque con entusiasmo la preghiera di Don Gaetano Piccinini, Preside dell’Istituto, di tenere alcune conferenze ai chierici e Sacerdoti del San Filippo Neri.
Mi si porgeva l’occasione di rilevare a un pubblico digiuno, ma ansioso di sapere, la lotta incessante dello scultore per domare la materia ribelle, i tentativi spesso vani, e la lenta elaborazione dello spirito che conduce alla creazione dell’Opera d’Arte.
Naturalmente limitai le mie letture all’Arte religiosa, con particolare riferimento alla mia Arte Cristiana. Narrai di ogni opera la genesi. Rivelai come nacquero e presero forma entro me, ebreo, l’ Annunciazione, l’ Ultima Cena, il Santo Francesco e l’ Assunta per la Chiesa delle Grazie.
Chiusi il breve ciclo delle mie brevissime conferenze con questa che leggo oggi e che affido alla vostra indulgenza.
I devoti di Don Orione troveranno qui la risposta alla domanda che ho visto molte volte affiorare alle labbra dei visitatori: «Se è morto, come può alzare una mano? E se è vivo perché ha gli occhi chiusi e sembra morto?».

Rievocare Don Orione come lo conobbi e come si fece vivo in me, che mai lo vidi coi miei miseri occhi umani, mi cagiona sempre una grande commozione e una grande dolcezza.
Quando la pia e dolce Signora che volle mantenere l’anonimo mi condusse al Piccolo Cottolengo del Restocco a Milano, proponendomi di eseguire il busto di Don Orione, ignoravo quasi l’Uomo. Avevo letto l’apoteosi dei funerali, le brevi stereotipate biografie dei quotidiani, affaccendati in ben altre cure, e nulla più. Grave colpa la mia. Ma è così.
Mi ricevette Don Sterpi in una stanzetta della Piccola Casa della Divina Provvidenza.
Ho netto il ricordo del primo incontro. Passando avevo dato uno sguardo all'imponente edificio in costruzione e avevo notato un plastico grandioso dell’intera opera.
Nel piccolo Uomo calmo, sereno e affabile, parco di parole e di gesti, intuii dal primo istante, la forza raccolta e disciplinata di chi ha un compito grandioso, ma non superiore alla Fede che lo anima. Soprattutto ebbi l’impressione (che non subì poi conoscendolo alterazione alcuna), dell’Uomo che vuole annullarsi, come cosa trascurabile, nell’opera che compie.
Ricordo suore, sacerdoti, giovani, all’apparenza seminaristi o chierici, bimbi malaticci, molte miserie, e quel che più mi colpì, un fervore d’alveare in piccolo spazio ingombro.
Don Sterpi tolse pianamente da una scatola, una maschera in gesso, e me la porse. Mi caddero le braccia.
Una povera cosa disfatta; un volto più somigliante a Beethoven che all'effigie di Don Orione sparsa ovunque nella Casa. Nessuna traccia del cranio, dell’inizio dei capelli, delle orecchie, nulla!
Evidentemente si era atteso troppo a trarne il calco, o colui che lo eseguì era inesperto e senza amore.
La tenni nelle mie mani in silenzio, non osando dire la cruda verità. Poi chiesi: «Non avete una fotografia della morte?» Me la porsero.
Trasalii. Ebbi la visione delle pietre tombali dei nostri Condottieri più famosi. Mi parve rivedere i lineamenti rudi e decisi di Cangrande della Scala, del Gattamelata, di Colleoni, addolciti da una luce interiore ineffabile… «Questo, questo sì, mormorai, questo è Lui… Il monumento se l’è fatto da sé!».
Infatti, così rigido e composto sul letto funebre, chiuso nei paramenti sacri come in un’armatura, più simile a un guerriero che a un Sacerdote, mi apparve bellissimo e grandioso. Non esitai un istante, e gettando risolutamente a mare l’idea del misero busto, che sempre è episodio e non vita, dissi alla Donna gentile che seguiva con sguardo ansioso il mio pensiero segreto: «Questo bisogna fare e non altro».
Sul volto di Don Sterpi si dipinse l’ansia della spesa ignota, e forse eccessiva, il timore dell’opera lussuosa in contrasto con la vita e la morte modesta dell’Uomo.
«Noi siamo poveri» mormorò.
Ma la pia Signora non gli lasciò il tempo di esprimere interamente il suo pensiero: «Don Sterpi, a questo Lei non deve pensare; ci penserà la provvidenza».
E, rivolta a me decisamente, come chi ha perfettamente compreso: «Faccia Lei, Minerbi, quel che sente; noi desideriamo solo riavere Don Orione».
Uscendo dalla povera disadorna casetta di Restocco, portavo meco, non già la maschera, che mi fu inviata più tardi, ma la parte migliore di Lui. Lo Spirito.
Una febbre ben nota, quella specie di esaltazione che sempre mi viene quando un’opera, non ancora forma tangibile, comincia a vivere la logorante e meravigliosa vita dello spirito, si era impadronita di me. Volli sapere, vedere, sentire, di Lui, tutto. E la sera dopo il Senatore Cavazzoni e Don Giuseppe Pollarolo, con fervida commossa parola, ne rievocarono per me Vita, Opere, Aneddoti.
Nell’incisione, sebbene roca di un disco, udii la Sua parola incitatrice, semplice e disadorna.
In visione cinematografica, lo vidi Sacerdote davanti all’Altare, assorto nell’estasi Eucaristica, lo vidi al tavolo di lavoro; e padre tra i bimbi; lo seguii nella folla oltre Oceano, missionario tra gente ignota, instancabile, incitato nella Sua corsa alla Carità come da una visione seducente, da una Fata Morgana, che gli faceva dimenticare ogni fisica sofferenza. Sempre più avanti: sempre più oltre, ovunque sono Anime che soffrono e attendono!
E lo vidi al ritorno, in Patria, un po’ appesantito nella carne devastata, ma i grandi occhi profondi, luminosi, sempre sorridenti …
Quando mi sembrò di averlo tutto entro di me, lineamenti fisici ed Anima, quando udii le ultime parole che pronunciò alla vigilia della partenza per Sanremo; raccolsi il materiale iconografico, abbandonai ogni altro lavoro, e mi rinchiusi all’Aretusa, nella dolce casa tra gli ulivi e il mare di Rapallo, che aveva visto nascere il mio Santo Francesco. E incominciai il lavoro.

Dare alle mie statue una vita interiore, profonda, tale da turbare l’osservatore attento e sensibile, ecco il fine primo e solo della mia arte, l’assillo che per tanti anni ha dominato e domina le mie creazioni.
Eternare ad esempio l’istante della Resurrezione, il primo fluire del sangue nelle arterie gelide di Gesù, e nel Convalescente del Monumento al Medico Italiano Caduto in Guerra, il pulsare della vita che ritorna.
Rendere, nel sonno di una lastra sepolcrale, la visione di una vita effimera che ha la durata di un attimo, e illumina di una rapida fiamma subito estinta, il volto della creatura.
Nel dolore atroce di Maria, nel gruppo della Pietà; far vivo lo strazio che affiora senza lacrime né gemiti: muto!
Esprimere l’estasi della Santa Cecilia che, assorta nella visione celeste, non sente l’artiglio del dolore. Tutto questo avevo già fatto.
Ora volevo fissare per sempre nel corpo giacente del mio Don Orione l’ultimo soffio di vita, il lento salire della morte dalle estremità al cuore, mentre l’occhio socchiuso e velato ha la visione ultra terrena del mistero che l’attende…
Ecco il compito che dovevo assolvere all’ Aretusa. Nello studio tutti i cento volti di quell’Uomo prodigioso si allinearono alle pareti intorno a me. Da qualunque parte io mi volgessi, mi apparivano il suo sorriso e il suo sguardo scrutatore e il suo gesto accogliente e benedicente e il suo incedere prima leggero, poi a poco a poco reso pesante e affaticato, la mano stesa e premuta sul cuore, come a placare la pena del male insidioso che già lo travagliava.

I ritratti si accumulavano. Don Orlandi incitato da me continuamente, spediva fotografie su fotografie. E a poco a poco il volto di Don Orione prendeva forma e vita.
A volte mi arrestavo incerto, sospeso su un particolare che nessuna fotografia mi rivelava, ad esempio la nuca, l’attacco mastoideo delle orecchie, e la forma della tonsura…
Piccole cose, inezie forse, ma che mi esasperavano, come se mi si celasse a intenzione qualcosa. E allora mi esaurivo in richieste di istantanee a Tizio e a Caio.
Ricordo d’aver ricevuto un giorno da un’ignota, devotissima a Lui, un’istantanea presa certo a tradimento, vista di dietro, che mi permise di ricostruire appunto l’attacco posteriore delle orecchie così caratteristiche.
Debbo dire che, solitamente, sono tardo nel concepire, lento nell’eseguire, incontentato sempre. Faccio e rifaccio, ostinato e amoroso, e appassionato, fin che la materia cede e si satura di me e della mia pena.
In quest’opera invece non conobbi esitazioni e pentimenti. Non sollecitai consigli. Andavo diritto, sicuro, come se Egli stesso posasse dinanzi a me.
Riandavo quel che di Lui mi era stato raccontato, leggevo tutto quanto s’era scritto di Lui, (non molto perché scomparso solo da pochi mesi) e raccoglievo materiale e osservazioni per la statua futura.
Ricordo che sopra tutti gli episodi, mi commuoveva e mi turbava il racconto dell’assoluzione concessa all’assassino della madre.
Sempre ho avuto dinnanzi agli occhi e sul cuore, “quel ciglio di strada” nella “notte infernale” e quel bruto, quel matricida, in ginocchio davanti all'"Uomo di Dio” che ne raccoglie la confessione e l’assolve.
Ho detto: mi turbava, ma dovrei dire: mi assillava.
Assumendo in pieno, su sé e sulla sua anima, il peso dell’assoluzione dell’assassino, la carità di Don Orione assurgeva nel mio spirito ad altezze mai raggiunte.

Giorni indimenticabili!
Erano ore e ore di lavoro fervido e senza pause; nessuno era ammesso nello studio eccetto Don Pollarolo. Arrivava all'improvviso da Tortona, da Milano, da Torino, tra una predica e l’altra. Se ne stava in un angolo, in silenzio, guardando uscire dall’ombra a poco a poco il volto del suo venerato Maestro. Lo incitavo a parlare, a rievocare di Lui, instancabilmente, tutto; e quando se ne andava (caro e buon Don Pollarolo) sembrava lasciare nello studio parte del suo cuore, e il mio ardore rinfocolato dalle sue parole aggiungeva ancora un particolare, ancora una nota viva e vera a quel volto trasumanato e ricostruito nella sua verità più alta e più umana.
Ormai le numerose fotografie sparse per lo studio mi sembravano svuotate di Lui perché a tutte avevo rubato qualcosa, ritrovando e riplasmando il sorriso ultimo e dolcissimo del Padre degli Orfani, del Pazzo della Carità.

Sono ritornato a Milano. Ho meco il modello in gesso della testa di Don Orione, e mi accingo a modellare la statua intera; già la figura si delinea potente e ieratica sulla tavola nuda che gli fa da giaciglio.
Fin dal primo istante non m’eran sfuggiti i molti punti di contatto di Don Orione con San Francesco: le ribellioni della sua natura esuberante, prontamente represse e dominate; la perenne letizia del suo operare, la passione devota di costruire chiese e santuari, il completo oblio di “frate corpo”, l’arguzia, l’umorismo. La Povertà e la Carità insuperabile.
Debbo ai piedi stigmatizzati del mio Santo Francesco che a pochi metri da Lui, lo sovrasta e gli dice le parole ineffabili della Predica agli uccelli, la decisione di far povero e scalzo Don Orione.
Ho soppresso la pianeta che nella fotografia della “Deposizione” è visibile. Egli non ha che il camice e la stola: i ginocchi forti e nodosi, si delineano in rilievo sotto la veste come quelli del Santo sotto la tonaca. Visto di profilo, il crocefisso stretto nella mano sinistra, ricorda l’impugnatura di una spada romana, e le pieghe rigide del camice sembra continuare e celare una lama inesistente. È veramente il Soldato di Cristo! Gli occhi sono socchiusi e velati dalle lunghe ciglia… Perché non aperti nell’ultimo saluto?
Ho io compreso che nessuna materia plastica, eccetto il colore, poteva rendere quella luminosità profonda e scrutatrice, che sembrava esplorare il buio delle coscienze? Forse.
So, con certezza, che quegli occhi fin dall’inizio mi seguivano, mi inseguivano dalle pareti mentre lavoravo. Li socchiusi così come avrei abbassato una tendina a velare un raggio di sole importuno. Dicevo tra me e me: «Se sarà necessario li riaprirò poi»… e non li ho più riaperti.
L’occhio aperto è sempre distratto da molti aspetti della vita circostante. L’occhio chiuso è invece rivelatore di una vita interiore profonda. Il “Morente” prega assorto nell’ultimo colloquio col Signore, al quale raccomanda e affida la Sua Opera e i Suoi Figli.

Don Pollarolo è sdraiato sul lettuccio in posa. Indossa il camice e la stola. Ha in mano il crocefisso, nell’altra un rosario a grossi grani. L’ho castigato all'immobilità della posa per punirlo delle sue macchinazioni cinematografiche! Entrava nello studio a sorpresa, armato dall’inseparabile obiettivo, con nel volto un’espressione arguta e implorante assieme; e mi girava intorno scattando, l’occhio al mirino, felice come un ragazzo…
Ora intanto ha deposto l’obiettivo e fa un mestiere che per un Orionino è nuovo, il modello.
E non par dolersi del castigo. Un giorno gli dissi scherzando: «Dovrebbe far penitenza, e posare Lei per l’insieme della statua!».
Ed egli non se l’è fatto dire due volte; ha indossato il camice e si è messo in posa.
Ora, ultimata la veste, sono quelle benedette mani che mi assillano, perché non ancora composte nel ritmo che io sogno. Soprattutto la destra, quella che tiene il rosario. Ho fatto piccoli bozzetti di questo particolare, ma nessuno mi soddisfa. Adesso la mano destra è abbandonata sul petto e incrocia l’altra col crocefisso. Ma il gesto è insignificante, usatissimo in cento e cento pietre tombali…
«Insomma non va! Bisogna ricominciare da capo». Don Pollarolo mi interroga con lo sguardo, ormai rassegnato… «Bisogna interrompere questa linea orizzontale della figura giacente» gli dico; «bisogna spezzarla per farla vivere. Qualcosa deve agitarsi e sollevare quella rigida immobilità di morte o altrimenti Don Orione morirà davvero!».
E finalmente in un’ora di ”grazia”, da quel gran corpo, già preso dal gelo che accompagna l’ultimo soffio di vita, “la Benedizione”.
Ma quante sono nella vita d’un artista queste ore di ”grazia”? quante sono le ore benedette in cui la materia vinta si concede allo spirito ansioso dell’Artefice?
Per quel che mi riguarda, poche.

Eccomi ora davanti al blocco informe giunto da Carrara. Gli giro intorno; lo scruto ansioso da ogni lato, preso dallo strano struggimento che sempre mi tiene davanti alla gran mole bruta e massiccia che vien a noi dalle cave: Vedere dentro!
Poter vedere se nel suo interno si cela subdolo un difetto, una vena, una macchia che renda poi vano tutto il lavoro di mesi. Nulla. Sembra puro, immacolato, immune da ogni difetto.
L’abbozzatore tasta qua e là il blocco col ferro di punta. Il marmo dà un suono sordo, chiuso. La materia ribelle pare si irrigidisca e contragga i suoi muscoli duri per opporre la maggior resistenza al ferro che la mordicchia implacabile.
Ostile, incassa colpi su colpi, senza cedere che poche squame. Poi colpito fortemente, decisamente con tre puntate a destra, a sinistra, in alto, schianta e abbandona all’abbozzatore grossi blocchi di marmo superfluo.
Ad ogni schianto vorrei gridare: ahi! Tanto la tema di ferire Lui, Don Orione, mi angoscia.
Ripenso mio malgrado al marmo della mia Annunciazione lievemente lesionato durante una simile operazione, e della ferita mi accorsi solo, quando rifinito e levigato il marmo, apparve il seno sinistro, proprio all’altezza del cuore della Madonna, una lieve cicatrice di un bianco pallido.
L’abbozzatore imprudente non aveva misurato bene il colpo! Un millimetro più profondo e ne avrebbe asportato il seno!
Ma qui, nel Don Orione, già la forma si delinea, si rivela a poco a poco. Più nessuna tema. Solo la gioia fragorosa e sonante del mazzuolo che batte ritmico sul ferro! Avanti! Il figlio del selciatore Orione ha già udito nella sua infanzia il canto del mazzuolo, ed è là dentro che attende!
E le schegge candide, aspre, taglienti, balzano, volano, rimbalzano attorno, lasciando ovunque il segno della carezza rude.
Poi finalmente la voce del marmo diventa canto sereno, sicuro, che più si attenua, e più diventa lieve quanto più si approssima alla forma perfetta. Il marmo superfluo non è più che un velo. La fatica dell’abbozzatore è finita. Incomincia l’opera dello scultore.

La statua ormai ultimata è esposta nello studio. Le sono intorno sacerdoti e amici. Annunziano Don Sterpi.
Ogni commento è interrotto e s’è fatto il silenzio. Un silenzio che certo partecipa della mia ansia. Non avevo mai dubitato della rassomiglianza perfetta, e avevo accolto il giudizio dei visitatori con quella certezza assoluta, che fin dall’inizio mi aveva sorretto nel mio lavoro. Ma ora, davanti all’Uomo che aveva passata l’intera vita accanto a Don Orione, quasi celandosi nella Sua ombra, e con Lui aveva iniziato e condotto a termine la dura impresa di Carità che non ha porte chiuse e confini, davanti a quell’Uomo che conosceva ogni fisico particolare, ogni sfaccettatura spirituale di quel prisma prodigioso, mi sento prima a disagio, poi dubbioso, poi ansioso come chi attende non un giudizio, ma una sentenza.
Don Sterpi, dopo aver sorriso dolcemente ai presenti e a me, inizia con lentezza il suo giro intorno alla statua, curvandosi un po’ per meglio osservare ogni dettaglio del volto, scrutandone ogni scorcio, serio, raccolto, muto, come se nulla e nessuno esistesse per lui in quell’istante.
Solo il Compagno grande della sua piccola vita oscura e devota, tutta dedizione e amore all’Uomo e all’Opera.
Poi rompe il silenzio per dire a voce sommessa: «È proprio Don Orione».

Qui potrei chiudere la mia rievocazione perché la statua è finita. Ma frugando tra le ceneri e i tizzoni di quel gran fuoco, n’è uscito ancora qualche ricordo non indegno d’essere narrato ad ascoltatori devoti.
In quel giorno memorabile, Don Sterpi mi chiese se sapevo che Don Orione era mancino. Risposi stupito: «No». E allora raccontò:
«Una volta Don Orione s’era ammalato a Roma, e aveva lasciato crescere la barba. Quando si rivide allo specchio, notò con stupore che assomigliava a suo padre, e poiché egli non ne possedeva alcun ritratto, volle uscire e farsi fotografare. Le mostrerò io la fotografia nella quale è il crocefisso nella sinistra, come nella statua…».
Queste parole gettarono una luce improvvisa sulla mia strana insistenza a mantenere il crocefisso nella mano sinistra, non solo, ma afferrato a metà corpo in quel modo più soldatesco che devoto.
Confesso che provai il brivido dell’ignoto. Don Pollarolo non me n’aveva mai parlato, evidentemente perché, conoscendo questo particolare, trovava esatto l’atteggiamento, ma ricordai l’osservazione meravigliata di un mio giovane: «Maestro, lei ha messo il crocefisso nella mano sinistra!».
E sapevo anche di non aver dato alcun peso all'osservazione, che era pur giusta, mentre all'’inizio avrei potuto invertire il gesto facilmente, non essendo ancora in atto la Benedizione, che venne poi, come ho detto, in un secondo tempo.
Strani suggerimenti del subcosciente! L’artista, quando crea, è fuori dal mondo reale; e giungono al suo spirito voci lontane, appena distinte, rivelatrici di verità che egli ignora. Poi, ahimè, cala sul suo spirito un velo denso, ed egli ritorna carne, povera carne che si corrompe.
Quante prove ho avute nella mia vita d’artista, che soprattutto nelle creazioni elaborate dallo Spirito, questo subcosciente esiste e si fa palese!
E nel Don Orione la permeazione dello Spirito nella materia è così palese da turbare profondamente il devoto.
Ricordo a questo proposito che, ultimato il marmo della statua, ne attendevo la collocazione al Piccolo Cottolengo, quando giunse all'improvviso il Vescovo Cribellati, che non aveva mai visto la statua, accompagnato da alcuni sacerdoti della Congregazione. Li feci entrare nello studio e li lasciai qualche istante soli perché avessero campo di esprimere liberamente il loro giudizio.
Quando rientrai, udii, attraverso l’uscio socchiuso, un parlottare sommesso, come di chi prega. Mi arrestai sorpreso. Davanti al simulacro del loro “Padre”, Mons. Cribellati pregava e i Sacerdoti torno torno, facevano eco.
Con la gola chiusa dall’emozione mi allontanai senza far rumore. Era la conferma che non avevo lavorato invano, e che il fine agognato era raggiunto.
Venne poi il riconoscimento unanime, e nel mio studio sostaron davanti alla statua di Don Orione, in un’ammirazione devota, principi del sangue e principi della Chiesa; all'inaugurazione al Piccolo Cottolengo, il popolo sfilò davanti a Lui, nella povera stanzetta del Restocco, trasformata in cappella, ma nessuna lode, nessun riconoscimento mi ha toccato profondamente come quella preghiera dei Suoi Figliuoli e il pianto a fior di ciglia del Vescovo, dell’antico Suo Compagno.
L’Arte religiosa, e questa lo è in tutta la sua pienezza, deve tendere a questo scopo unico e grande: commuovere ed esaltare.
Se non raggiunge questo scopo, lo ricordino i futuri Sacerdoti, l’arte religiosa è vana decorazione e fallisce lo scopo.
Eternando Don Orione nell’ora del trapasso, sono convinto d’aver ubbidito inconsciamente a un comandamento che mi veniva da Lui.
Certo, se Egli fosse morto, non lontano e torturato da dolori lancinanti, ma nella sua Tortona, circondato dai suoi chierici, dai suoi Sacerdoti, dagli orfani che amava tanto, sarebbe morto così, come io l’ho effigiato. Me l’hanno detto con certezza le Sue ultime parole prima di lasciare Tortona per sempre: «Non è tra le palme che vorrei morire, ma tra i poveri, che sono Gesù Cristo».
E io l’ho fatto morire, così, tra i suoi poveri, poveramente; e nel futuro, in luogo di una reliquia resa irriconoscibile, i Suoi Figli rivedranno il Padre e riudranno le Sue parole e la Sua ultima invocazione: «Gesù, Gesù…».

 

 

 

 

 

 

APPENDICE II

ARRIGO MINERBI
La medaglia di Don Orione, la “piastrina del soldato”.

Qui nella casa del Padre Spirituale, rievoco. Ancora una volta, giorni ormai lontani e pur sempre dolci al mio cuore.
Roma, 7 dicembre 1943. Scaricato da un’auto di fortuna, sotto un diluvio d’acqua, fuggiasco con falso volto e falsi documenti, entro all'Istituto San Filippo Neri di Roma in via Appia Nuova. Una folata di ragazzi mi investe. Sono centinaia che mi urtano, mi spingono e io m’immergo nell’onda in tempesta e annaspo con le braccia in quello sciame umano, finché una porta s’apre e due braccia fraterne (Don Gaetano Piccinini) mi accolgono, e la porta si chiude dietro me. Silenzio e commozione. Il naufrago è a riva e si chiama Arrigo Della Porta.
L’ambiente mi apparve dopo i primi giorni alquanto strano. Professori e maestri in soprannumero… Figure alquanto enigmatiche di laici. A qualcuno più s’addiceva una divisa militare che l’abito borghese. I tedeschi imperavano, rastrellavano, deportavano.
L’assordante cicaleccio di quegli ottocento ragazzi celava e proteggeva l’opera di sublime carità di quei sacerdoti che rischiavano la vita per salvare i perseguitati.
Una magnifica discrezione vietava a tutti, laici, religiosi, seminaristi, anche la più larvata richiesta d’informazioni. Uno solo sapeva. Egli vegliava su tutti, pronto al sacrificio personale, magnifico di consapevole, serena tranquillità.
Voi mi direte: “Ma tutto questo, che c’entra con la medaglia che ci avete portato?”.
Sì, cari Amici, la medaglia non è che la risultante di quanto sto per dirvi.
Avevo preso possesso di una bella cameretta (ancora mi cuoce il rimorso di averne privato così il buon sacerdote che l’occupava), cameretta che a sua volta sembrava il centro di un’“arnia”, un “bugno”, tanto il brusio delle aule circostanti entrava a ondate…
Spesso scendevo in direzione e accompagnavo il Preside nel suo incessante peregrinare tra un ricovero e una scuola, tra un orfanotrofio e un asilo.
Ho avuto così modo di conoscere a fondo, non dico il cammino, che non fui così fortunato, ma la scia che Don Orione ha lasciato dietro di sé, morendo. Scia diventata in pochi anni solco largo e profondo, a guisa di un fiume che alla sorgente è lieve ruscello e scendendo a valle si accresce di infiniti torrenti e tutti li accoglie e dilata le sue rive, s’insinua tra valle e valle, finché maestoso e solenne ha la sua foce in mare.
Giorno per giorno mi era dato di assistere a questo affluire di rivoli e torrentelli, ora limpidi e tersi, ora limacciosi e impetuosi. E il gran fiume, a volte non più capace di contenere l’afflusso travolgente di cento e cento miserie, si faceva minaccioso, premeva contro gli argini…

Ma ecco che alle preghiere fervide del buon Padre, interveniva la Provvidenza, si placavano le acque e il fiume riprendeva a scendere solenne e calmo alla sua foce: “Il mare della Carità”.
La mia ammirazione aumentava. I sacerdoti non avevano riposo, i seminaristi nemmeno. Nessuna comodità, nessun refrigerio, né riposo in piume. Di tutto si privavano senza rammarico a un cenno del Superiore. Nessun mestiere, nessuna mansione, anche più vile, respingevano. Solo i “frati minori” d’un tempo eran loro emuli e compagni.
Fui testimonio di episodi che serbo nel mio cuore, e non dico, perché la parola li sciuperebbe. L’unico commento a questo è il silenzio!
E i militi di questa crociata santa contro il male, le sofferenze, la miseria, l’ignoranza, aumentavano di numero col sopraggiungere di nuovi lutti, di nuove miserie e varcavano i confini della Patria, emigravano oltre Oceano: missioni, seminari, asili, colonie agricole… D’anno in anno, a uno a uno, i figlioli di Don Orione, ordinati sacerdoti se n’andavano. E un giorno mi balenò l’idea di una medaglia.

Ecco come: possedevo una rara fotografia, che nella fuga andò dispersa di una medaglia in bronzo del primo secolo, che recava nel dritto una rude e primitiva immagine del Salvatore.
Magnifica. Sembrava l’effigie della Sindone in rilievo!
Questa rarissima medaglia che Re Vittorio Emanuele III ottenne da un arabo in Africa, in cambio di una casetta, era certamente un segno di riconoscimento dei primi Cristiani durante le persecuzioni. Tastandola, anche nel buio delle Catacombe, la medaglia che aveva forti rilievi, consentiva al guardiano di riconoscere gli adepti.
Perché non avrei anch’io donato ai figli di Don Orione una medaglia, una tessera di riconoscimento, con l’effigie del loro Padre spirituale?
Mi misi all’opera. Un po’ di plastilina, un’assicella, alcune stecche che mi feci io stesso con legno di bosso… una coperta provvidenziale sotto mano, per coprire il tutto al minimo bussare (io dovevo rimanere per tutti Arrigo Della Porta) e il piccolo studio di scultura era fatto.

Una bella fotografia di Don Orione circondato dai bimbi che gli fan corona, mi attirava pel suo bel sorriso luminoso che rincuorava e confortava.
Lavorando pensavo: nella fortunosa vita dei sacerdoti di Don Orione, sempre mobilitati, senza fissa dimora, l’immaginetta e la fotografia non reggono lunghi anni sul cuore, questa di bronzo rimarrà per sempre, li seguirà nel cammino faticoso e luminoso della Carità, fino alla tomba e nella tomba. E gli orfani di Messina e di Avezzano fatti uomini, rievocando la notte infernale, rivedranno chino su loro il volto del buon Padre che li accolse.
Nelle terre d’oltremare, nei deserti, nelle missioni, a sera, dopo il Credo e l’Ave, sul rude giaciglio concesso loro, tolta la veste, sentiranno sul cuore battere col duro bronzo della medaglia il cuore di Don Orione.
Il bimbo, strappato dalla guerra alla sua casa, fatto uomo e sacerdote, il figlio di nessuno, il ragazzo della strada, che Don Orione ha redento e fatto servo di Dio, tutti coloro infine che ebbero la fortuna di apprendere dalle sue labbra la preghiera e il dovere, e i molti, la schiera infinita di coloro che mai lo videro e mai lo vedranno nei secoli coi loro occhi mortali, Lo sentiranno vigilante e severo, sorridente e indulgente.

E così, a poco a poco, nella linda cameretta del San Filippo nacque la medaglia, la “tessera” di riconoscimento degli Orionini, la “piastrina del soldato”, che oggi io vi porto.
Nel retro della medaglia sotto al simbolo dell’Eucaristia ognuno farà incidere il suo nome e una data, quella del giorno della prima messa. E vorrei che anche gli anziani la possedessero e prego vivamente Don Pensa a voler esaudire questo mio desiderio, facendola pervenire a tutti. A tale scopo ne ho fatto coniare 400 esemplari e la Ditta che ha eseguito il lavoro serba gelosamente il conio in acciaio che permetterà alla Congregazione di commetterne altre.
E per il bene dell’intera umanità, auguro a questa Congregazione che molti siano i chiamati e molti gli eletti. E l’angelo muto, che nell’istante del trapasso attende il pedaggio terrestre per l’altra riva, non chiederà loro la confessione dei peccati ma guarderà l’immagine del Padre degli Orfani ed aprirà la porta aurea ed eterna al Milite stanco.
Un’altra cosa.
Molti di voi sanno che io mi ero proposto di eseguire il busto al vero di Don Orione, dopo la statua funebre, il volto di Lui vivo nella pienezza delle sue forze. Mi sono accinto all’opera con ardore, desiderando frustrare la corsa dei dilettanti al bustino di gesso o di carta pesta. Vi ho lavorato un’intera estate, ma non son riuscito, né io credo riusciranno altri. Gli occhi di Don Orione non si rifanno nel marmo e nel bronzo, ahimé! Questo l’avevo già compreso quando lo feci morente e mi decisi a socchiuderli. Negli occhi di Don Orione è l’anima. E l’anima non si scolpisce.
Avevo fatto il miracolo di Don Orione morente. Ma non ho saputo o potuto ripeterlo. Chissà! Forse un giorno, aiutato da Lui, riuscirò.
Intanto, eccovi questa medaglia che dirà a voi tutti quanto io vi ammiro e vi amo.

 

 

 

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