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Messaggi Don Orione
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Nella foto: Sant'Alberto di Butrio (Pavia), agosto 1900. Da sinistra, fra Igino (Mariani Pietro), Alberto Falchetti, Gaspare Goggi, Alessandro Volante.

Della visita all'eremo di Sant'Alberto con Don Orione, nell'agosto 1900, si conservano due foto. Dell'eremo scrisse con stupore e competenza.

DON GASPARE GOGGI SCRIVE DELL'EREMO DI SANT’ALBERTO DI BUTRIO

 

Don Flavio Peloso

 

Siamo nell’estate del 1900. Don Gaspare Goggi aveva da poco terminato il terzo anno di Università a Torino. Ai primi di agosto, Don Orione e Gaspare salgono a piedi sui monti dell’Oltrepò pavese, per raggiungere l’Eremo di Sant’Alberto di Butrio, un’oasi di pace spirituale, per sostare alcuni giorni in esercizi spirituali. Con loro ci sono anche gli amici universitari Alessandro Volante e Alberto Falchetti.[1]

L’antico eremo fu fondato nel secolo XI sant’Alberto di Butrio, uno dei protagonisti della ripresa della fede e della Chiesa dopo i “secoli bui”. Contemporaneo di san Romualdo e dei Camaldolesi, in Italia, e del movimento monastico di Cluny, in Francia, Alberto,[2] era un giovane del casato di Malaspina che si ritirò nell'alta Val Staffora (Pavia), in una grotta nascosta in una stretta valletta (“Borrione”, da cui Butrio), per vivere solo con Dio solo, in solitudine, austerità, preghiera, silenzio.

Scoperto da un cacciatore di passaggio, la fama del pio eremita si diffuse e numerosi seguaci si unirono a lui. Sorse prima una chiesa, poi un cenobio, poi altri eremi, un movimento monastico.  Il santo abate morì il 5 settembre 1073. In una Bolla del 6 febbraio 1477, Gregorio VII dichiarò la santità di Alberto, “religioso, uomo distinto, del quale adesso e in perpetuo per divina grazia è felice e veneranda la memoria”.

Dopo la morte del santo fondatore, l'abazia crebbe in potenza e numero di monaci residenti, eremiti solitari e predicatori itineranti. La tradizione racconta che nell’antico cenobio hanno soggiornato anche Federico Barbarossa e Dante Alighieri. Una campana, detta “del carroccio”, squillava dall’alto del campanile. Una tomba, scavata nella roccia, ricorda che lì fu sepolto Edoardo II, re di Inghilterra, rifugiato all’abazia in fuga da una congiura di palazzo. Pregevoli affreschi del 1484 ornano le pareti della chiesa.

Verso la metà del 15° secolo, con l’avvento degli abati commendatari, l’abazia incominciò il periodo di decadenza; fu lasciata dai monaci nel 1543. Seguirono tre secoli di quasi abbandono totale. Continuò il culto nella chiesa, sede di una minuscola parrocchia, eretta nel 1595.

Nel 1900, il vescovo di Tortona Igino Bandi volle fare la ricognizione delle reliquie del corpo di Sant'Alberto per metterle in onore. Della Commissione faceva parte pure Don Orione. Il Corpo del Santo rimase nascosto – scrisse poi Don Orione -; e per lungo periodo di tempo non si era ben certi del punto ove fosse stato sepolto...  Venne nascosto forse pel timore che venisse trafugato.  Ma nel 1900, dopo profondi scavi, è stato rinvenuto entro un'urna di vivo sasso, che ancora si conserva in fondo alla stessa chiesa”.[3]

Questo evento fece venire al Vescovo e a Don Orione il desiderio di ripopolare quell'austero e sacro ambiente. Gli Eremiti della Divina Provvidenza di Don Orione, nel luglio 1900, cominciarono a far risuonare le antiche mura di canti e di preghiere, trascorrendo le loro giornate nell' ora et labora benedettino.[4] Con loro c’era Don Paolo Cassola.

All’inizio di agosto 1900, si riunì a Sant’Alberto di Butrio la piccola comitiva formata da Don Orione con gli studenti universitari Goggi, Volante e Falchetti. All’eremo regnava estrema semplicità e austerità di vita.

Gaspare Goggi aveva informato l’amico Roella il 30 luglio 1900.

Oggi stesso parto per Tortona, donde, viaggiando tutta la notte, mi recherò a Sant’Alberto dove mi aspettano da qualche giorno Volante e Falchetti. Essi, durante la mia assenza da casa, vennero a Tortona invitati dallo stesso ottimo sacerdote che mi mandò a Sanremo [Don Orione], e andarono con lui a Sant’Alberto, dove egli ha un romitaggio presso l’antica Badia, di cui, se non erro, Sant’Alberto fu Abate. Dunque adesso io corro là e, appena mi sarò messo a posto, ti scriverò; anzi ti scriveremo.

Se il luogo, che io non conosco ancora, sarà adatto alla tua salute, e se vi ci fermeremo un po’ di tempo, ti inviterò a venire alcun tempo con noi, ché là è casa nostra. Ad ogni modo, noi colà pregheremo tanto Sant’Alberto perché conceda a te, o carissimo e dolcissimo fra i miei amici, la pace dello spirito, nell’amore di Dio e degli uomini, e tutti quei beni materiali di cui abbisogni: il tuo Santo, pregatone sulla sua tomba, non mancherà di proteggerti”.[5]

            Don Orione e i tre giovani universitari furono accolti premurosamente dagli eremiti. Di questo soggiorno, abbiamo notizia da una lettera di Goggi scritta da Sant’Alberto, in data 4 agosto 1900, diretta all’amico Roella.

Qui, un fresco primaverile ci compensa dagli ardori soffocanti delle nostre arse pianure e delle infuocate coste, e un’aria saluberrima ci conforta i polmoni. L’antichissima Badia, nella quale siamo alloggiati, e che, per lungo tempo, era rimasta soltanto più sede di un parroco, è ora ripopolata da ottimi Eremiti, appartenenti ad un ordine recentemente istituito; nella Chiesa annessa, la quale – Iddio non lo permetta – pare stia per diventare monumento nazionale, si conservano pitture del secolo XV, di grande pregio; sul campanile abbiamo la prima campana che si fuse in Italia; dappertutto sono colonnette ed archi di mirabile bellezza.

A pochi passi dal convento si addita, giù, in una specie di burrone, la grotta dove si era ritirato a pregare e a fare penitenza, circa 8 secoli fa, Sant’Alberto fondatore e primo Abate di questa Badia di Benedettini. Le ossa del Santo furono scoperte l’anno scorso e vennero autenticate pochi giorni fa, con solennissime feste, dal nostro Vescovo. I monti che ci circondano ci porgono un aspetto assai bello, di una bellezza semplice ed austera, che induce una calma serena nei sensi: le antiche mura e il luogo ermo ispirano pace e raccoglimento.

Con Volante e Falchetti passo la vita in modesta letizia ed in utili conversazioni; sovente ci rechiamo a pregare e a salmodiare coi santi frati. Tutto ciò concorre a sollevare il mio spirito, che era alquanto prostrato; ché, appena ritornato a casa e interrotte quelle pseudo occupazioni – che, in certo qual modo, giustificavano la mia esistenza e cercavano di riempire il vuoto interiore, benché mi trovassi in perfetta salute e in mezzo all’affetto dei miei -, mi assalì un abbattimento insolito, e quasi disperato: tutto mi appariva irrimediabile nel disordine della mia vita, e mi sentivo incapace di qualsiasi sentimento. Era, in fondo, una gravissima tentazione; ma, insieme, mi accorsi che in me mancava l’amor di Dio, senza del quale la nostra vita è assolutamente senza ragion d’essere, tanto più quando si è pienamente convinti della vanità del mondo e delle sue glorie.  Qui mi sento rivivere e la volontà riprende la sua energia”.[6]

            A gradita conclusione di quei giorni di riposo dello spirito, Don Orione guidò i tre studenti, in una lunga passeggiata che, da Sant’Alberto di Butrio (metri 687), passò al santuario di Santa Maria in Monte Penice (1460 metri) per raggiungere poi Bobbio (272 metri), presso la Tomba di San Colombano, e a Piacenza. I circa 200 chilometri di andata e ritorno furono percorsi tra la sera dell’11 e il 15 agosto.

            In una successiva lettera di Goggi, dal tono ilare e disteso, scritta all’amico Roella, in data 22 agosto 1900, Goggi racconta dello svolgimento di quel pellegrinaggio.

La tua lettera era giunta a Sant’Alberto fin dal giorno 11 corrente, mentre Volante ed io ci eravamo recati a Voghera per accompagnarvi alla stazione Alberto Falchetti. Da Voghera, invece di ritornare a Sant’Alberto, ci recammo, viaggiando quasi tutta la notte, al Santuario del Monte Penice, dove la mattina del 12 salirono in pellegrinaggio numerosi fedeli. Là ebbi notizia che era arrivata la tua carissima; ma, siccome ai piedi di quel monte, si trovava Bobbio, dove avevamo divisato di recarci, e, per ritornare a Sant’Alberto, occorreva non meno di sei ore, discendemmo a precipizio giù dal monte, prendemmo la strada più breve, se pur si poteva dir strada.

Da Bobbio, per Piacenza, e visitando i vari paesi, giungemmo il giorno 15 a Sant’Alberto, donde dovemmo ripartire subito, ché i miei mi chiamavano a casa. Qui, poi, per faccende varie, non mi fu lasciato un momento di requie: tra l’altro fui anche incaricato di scrivere alcuna cosa da darsi alle stampe; il che, per il momento, sommamente mi ripugna…

Il viaggio da Voghera ai piedi del Penice, fatto di notte e nella luce bianchissima della luna, mi lasciò nella mente un’impressione indimenticabile di soavità. Si viaggiava in vettura, ed era con noi un santo prete,[7] il quale si recava a predicare al Santuario: Don Orione ci parlava, con linguaggio ispirato, dell’amore di Gesù Cristo per noi. Non mai come allora io sentii così vivo l’amore di Dio, il Cui Nome grandeggia per l’universo; e, insieme, mi appariva chiara la visione di tutte le cose, e vedevo, senza velami, il mistero e il perché della vita; la quale non è altro che amore. Sul monte assistemmo ad uno spettacolo di fede consolantissimo: come era bello veder sfilare, in devota processione, quei buoni montanari, nelle loro vesti dai colori vari e vivaci, e, dietro di essi, i cari eremiti in bianche stole!

A Bobbio, nella Basilica di San Colombano, abbiamo visitato la tomba del Santo Abbate olandese, i bei dipinti e gli artistici reliquiari; il celebre e grandioso monastero dei Benedettini è diseredato e quasi completamente profanato: conserva ancora due splendidi antifonari musicati, adorni di preziosissime miniature.

A Piacenza abbiamo potuto visitare il grandissimo palazzo ducale, di stile gotico, conservato con religiosa cura; visitammo anche l’austera e solenne chiesa gotica di San Francesco, e la cattedrale, magnifica e imponentissima.

Particolari ameni: noi avevamo intenzione di passare per Sant’Alberto, prima di intraprendere il nostro viaggio, per metterci, se non altro, in condizioni un po’ più adatte; ma, siccome fummo pregati di recarci direttamente al Penice, facemmo poi la nostra escursione in abito più dimesso, senza colletto e vestiti soltanto per due terzi. Il buon Volante, nel discendere a Bobbio, si stracciò «a posteriori», sì che fu costretto a andar mostrando al pubblico i bianchi indumenti sottostanti.

A Piacenza le guardie di Questura, vedendoci gironzolare per gli amplissimi e graziosi giardini in abito così poco decente e con aspetto che aveva del signorile insieme e del miserabile, ci adocchiavano sospettosi, e per poco non ci pedinavano: ci hanno presi certamente per due anarchici, in questi momenti così feraci di simili mostri, o, alla men peggio, per due individui della specie dei vagabondi”.[8]

            Fu una vacanza fruttuosa: uno di quei giovani, Falchetti, ritrovò la fede che mai più perse; Goggi e Volante s’incamminarono verso il sacerdozio. Di quei giorni all’Eremo di Sant’Alberto di Butrio rimangono alcuni preziosi documenti: due articoli e due foto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         

           La foto fu scattata presso il campanile dell’abazia; i tre amici universitari vi appaiono in abito eremitico, con veste marrone e con scapolare bianco. A partire da sinistra il primo è fra Igino (Mariani Pietro), il secondo è Alberto Falchetti, poi noto pittore; il terzo è Gaspare Goggi, con la mano appoggiata ad un crocifisso di legno; il quarto è Alessandro Volante.

            Il venerabile Frate Ave Maria, ad anni di distanza da quella foto, riferì: “So che a Sant’Alberto pellegrinò Don Gaspare Goggi, quand’era ancor studente all’Università di Torino. Si vestì anche da frate, e fu, forse, chiamato Frate Sole. Don Orione, parlando di quel tempo, parlava di Don Goggi e di Frate Sole. Forse Don Orione aveva una fotografia di Goggi, presagli a Sant’Alberto, davanti alla Chiesa, quando ancora era cimitero, e, rasente al muro della torre, c’era allora un sambuco e una croce. Quando venne col dottor Moretti, volle farmi fotografare in quel punto, tra il sambuco e la croce di legno, rivolto verso occidente. E mi disse affettuosamente: “Così mi ricorderai Don Gaspare”.[9]

            Sulla benefica sosta a Sant’Alberto, Goggi scrisse, nel settembre successivo, un altro articolo dal titolo: “Multa renascentur”, con il quale illustra le finalità dell’eremo di Sant’Alberto ed i benefici intesi ed attesi da Don Orione ridandogli vita con la presenza degli eremiti. Solo un passaggio. “I nostri monti si vanno ripopolando di eremiti: fra poco altri uomini devoti, qui venuti a pio pellegrinaggio, torneranno a prendere stanza nella città, e alle genti che, dietro a vane promesse, cercano, invano gemendo, di uscire dall’angoscia che li opprime. Largiranno in copia le ricchezze e i gaudii, che può fare soltanto la Croce abbracciata generosamente per amor del Signore. Per ora si sono estinte, con la luce, le ultime voci che i buoni religiosi innalzavano a Dio in rendimento di grazie, e nell’erma chiesuola regna una pace solenne e misteriosa: le mura antiche e gli antichi dipinti ci parlano di tempi, in cui la fede viva formava coi santi i grandi artisti”.[10]

 

Nella foto, seduti, sono Don Paolo Cassola, Don Luigi Orione e il chierico Giovanni Battista Alvigini; in piedi, sono Alberto Falchetti, Gaspare Goggi, Alessandro Volante e Mariani Pietro.

 

GASPARE GOGGI SCRIVE DI SANT’ALBERTO

Don Orione chiese subito a Gaspare Goggi di scrivere un bell’articolo, come sapeva fare lui, per il Bollettino L’Opera della Divina Provvidenza; fu pubblicato nel numero datato 14 settembre 1900.

MULTA RENASCENTUR

Di nuovo adunque l’antica chiesetta risuona del canto dei suoi frati? Di nuovo da questo luogo solitario salgono copiose al cielo le preghiere degli amici di Dio? Ma e non avevano giurato  gli empi profanatori delle cose sacre di sterminare dal mondo le società religiose? Poveri infelici! Non si erano accorti di essere deboli strumenti della vendetta di un Dio Buono, il quale non conserva a lungo lo sdegno contro gli uomini che Egli creò, redense ed esalta per puro amore!

I nostri monti si vanno ripopolando di eremiti: fra poco altri uomini devoti torneranno a prendere stanza nelle città, e alle genti che, dietro a vane promesse, cercano gemendo e ormai senza speranza, di uscire dall’angoscia che li opprime, largiranno in copia le ricchezze e i gaudi che può dare soltanto la povertà abbracciata generosamente per amore del Signore.

Pur ora si sono estinte, con la luce, le ultime voci che i buoni religiosi innalzavano a Dio in rendimento di grazie e, nell’erma chiesuola regna una pace solenne e misteriosa: le mura antiche e gli antichi dipinti ci parlano di tempi, in cui la fede viva e la Madre Chiesa sapevano formare, coi santi, grandi artisti.

            Fuori, la luna, graziosamente incoronata di bianche nuvolette, con la luce sua candidissima, imprime sul terreno, nere e distinte, le ombre delle case del paesello là in alto, e delle piante che, austere, distendendo solennemente le loro braccia, si ergono lungo il declivio. Laggiù, in una specie di burrone, scorgo le rovine della grotta, dove al Santo, che doveva poi stabilire questo convento, erano addolcite dall’amore di Dio le privazioni e le aspre penitenze.

            Un po’ più su, gira quasi ad arco la stradicciuola che conduce in questo luogo di pace. Là dove essa comincia ad internarsi nel bosco, mi par di vedere tuttora la cara figura di un eremita che vi passò verso il cader del giorno, cantando le lodi di Maria: gli occhi suoi sfavillavano di una gioia insolita, e, arrivato al punto che pare divida questa piccola conca montana dal resto dei luoghi abitati, si fermò alquanto e rivolse addietro lo sguardo, come per salutare i fratelli suoi che lasciava nel mondo. “O uomini”, pareva volesse dire, “per amor vostro io mi allontano da voi e mi ritiro in luogo segreto a pregare il Signore perché vi aiuti nell’aspro cammino della vita, perché benedica le vostre fatiche, perché faccia prosperare le vostre campagne, e sopra tutto perché i beni, che Iddio vi concede, adoperiate a salvezza delle anime vostre.

            Forse in mezzo alle vostre faccende mondane vi dimenticherete di noi, segregati dal mondo, o per sventure materiali, o per afflizioni di spirito, sentirete più vivo il bisogno di un’intima unione con Dio, vi tornerà gradita alla mente la ricordanza dei poveri eremiti che pregano per voi e vi aiutano a sollevarvi da coteste bassure”.

La luna, aiutata dal dolce venticello, riesce a dissolvere la corona che la circonda e più nitida appare nel cielo tersissimo; odo il sibilo leggero dell’erba e dei fiori carezzati dall’aria. Ma forse il mio vegliare turba la calma solenne di questo luogo di santi: è tempo di ritirarsi: domani, all’alba incomincerò a celebrare coi miei buoni eremiti la festa di Colei che dagli Angeli fu assunta in cielo.

 

            I DIPINTI DI S. ALBERTO DI BUTRIO

           Un articolo più impegnativo fu chiesto a Gaspare Goggi dal canonico Legé: “Il canonico Legé mi chiede, anche a nome di Lei, relazione degli studi fatti sulle pitture di Sant’Alberto, e qualche copia delle fotografie prese: cose tutte che dice essergli state promesse da Lei più volte. Don Legé mi incarica anche di riportare sulla Cronistoria di Ignazio Cantù le poche cose che riguardano la campana di Sant’Alberto: in questo potrò servirlo subito; ma, per rispondere, sarà bene che aspetti qualche cosa da Lei… come debba regolarmi”.[11] Ne venne un articolo ricco di erudizione, frutto di diligente ricerca e di vibrante sensibilità contemplativa e artistica; fu pubblicato nella rivista storica tortonese Derthona Sacra a fine 1901, con il titolo “I dipinti di S. Alberto di Butrio” e firmato “Un eremita della Divina Provvidenza”. [12]

 

Le due navi che costituiscono la chiesa di S. Alberto, divise da un muro con due porte, erano un tempo probabilmente, dipinte da ogni lato. Si possono vedere alcuni nuovissimi frammenti di colore sul muro destro e sinistro della seconda nave, ove ora sorge l’altar maggiore.

La nave che si allunga in seguito alla cappella del Santo, nella parete sinistra, accanto alla porta di fondo, conserva un dipinto. Sono raffigurati due Santi, disposti in modo da chiarire ad ogni occhio esperto, che facevano parte di una decorazione assai vasta, ora distrutta. E io stesso potei scoprire, sotto l’intonaco volgare e recente, alcune tracce di dipinto, non più larghe di una mano, che appartenevano certamente all’epoca delle altre pitture ancora conservate.

Tutto quanto il valore  artistico della S. Chiesetta, per quanto riguarda i dipinti, non si può ora ricercare che nella bellissima cappella di entrata e in quella di S. Alberto; imperciocché il Signore non conservò che queste due parti a testimonianza del culto che i nostri maggiori ebbero per S. Alberto, della sua dignità ecclesiastica e dei suoi miracoli.

Tutte le altre decorazioni andarono perdute, e l’intonaco, a mio giudizio, fu disteso soltanto su quelle pareti che l’umidità, il tempo e altre cause privarono delle figure dipinte. Le due cappelle appartengono al medesimo anno e portano la stessa data: 1484, epoca della restaurazione della chiesa, la quale apparisce di fattura molto più antica. La prima cappella è decorata completamente in modo assai vario e geniale, quantunque l’esecuzione sia in alcuni luoghi trascurata, o per lo meno riveli una mano frettolosa e poco curante della perfetta linea.

La volta è ornata con stelle azzurre in campo roseo e gli archi colle figure dei ventiquattro profeti. Tutta la chiesa è di pietra riquadrata, con una piccola porta ad oriente, verso la montagna e due finestre alte che rispondono verso una grande valle di nuda roccia, dalla parte del Po.

Sopra la porta un mezzo tondo è dipinto con la figura del Salvatore che esce dal sepolcro, di eccellente fattura. Nelle volte, oltre alle predette figure dei profeti, si mirano l’ orme dei feudatari o dei restauratori: terra rossa in campo azzurro e rosso. Le figure dei profeti non hanno nulla di singolare e sono della medesima fattura e disegno di quei filosofi e di quei Santi che sono dipinti intorno al cortile di alcuni castelli piemontesi e in altri edifici del XIV e XV secolo. Generalmente il Medioevo non concepì i Profeti  in aspetto molto diverso da quello dei Santi della  legge nuova; e forse in questo fu assai più delicato e sottile del Rinascimento, che volle argomentare dalla forza morale delle Scritture Sante, la gagliardia muscolare dei Profeti, e diede agli uomini del Signore gesti e corpi di atleti, più che moderazione e finezza di santi.

La volta stellata è per la coloritura, resa anche più fine dall’azione del tempo, di una leggerezza grandiosa e tranquilla. La volta sopra l’altare però non è dipinta a stelle ma con una bellissima figurazione del Nuovo Testamento. Nel cerchio di mezzo il santo Agnello, cui fu data potestà di aprire il libro dai sette sigilli; e ai quattro lati la figurazione simbolica degli Evangeli. L’angelo è alquanto guasto, ma l’aquila, in forma araldica, è di grande bellezza per il disegno e per la vitalità.

Nel fondo dell’altare, S. Antonio, alquanto scolorito e a sinistra San Giorgio a cavallo, colla corona di rose, disegnato egregiamente. Il cavallo ha movimento accademico ma rapido e il cavaliere impugna la lancia con grazia. Il resto della chiesetta  è decorato in questo modo: intorno corre una fascia colorata in rosso con stelle, il fondo della parete è giallo, e sopra la fascia sono disposte le figure. Notevole quella di S. Francesco e di S. Alberto, di grande sentimento. L’insieme della chiesa è modesto quantunque una decorazione a figure sia sempre molto più costosa che una decorazione appariscente di ori. I nostri padri del sec. XV amavano meglio onorare il Signore innalzando a lui chiese che servissero a piovere nei cuori amore e fede umile, che farsi onorare dal mondo con opere di grande apparenza e splendore.

L’arte del sec. XIV informa il sentimento delle figure tuttavia in esse non si trova l’arte medievale pura; si sente già la forza della rinascenza. Ad ogni modo il pregio singolare dell’opera, e quello che più deve essere caro al cuore di un cristiano, è la viva fede che splende nelle rappresentazioni di Santi. Noi non abbiamo memoria della pietà dell’autore di questi dipinti, ma certo la sua mano obbediva a profondi sentimenti religiosi; sia ch’egli stesso fosse pio come Gaudenzio e Giotto, sia che seguisse la tradizione religiosa. Il disegno può talora fallire in alcuna parte e la proporzione essere inesatta; ma in compenso quanta abbondanza di amore e di santità è diffusa non solo nei volti ma in tutte le persone dei Santi.

Le figure sono alte e sottili, pur conservando un’armonica proporzione, quasi spirituali e recano nelle mani oggetti di martirio o di pietà. Le mani sono una delle parti più riuscite di questi santi corpi. Esse hanno tutta la dolcezza e l’umiltà di una mano verginale, e con eloquenza nuova narrano che non si alzarono mai con violenza e con ira, in uno sforzo superbo, ma che si abbassarono umili a carezzare i piccoli, i poveri e alla santa fatica, e si congiunsero nella preghiera santa e modesta.

Lo stesso colorito ha alcunché di trasparente e di gentile; i colori vivaci vennero più tardi in uso nell’arte; ma prima l’eccesso della carità evangelica non permetteva a quei semplici artisti di offendere la pace e la meditazione nelle chiese, con tinte e con riflessi inarmonici e sfacciati.

Nessuno che non sia artista e non conosce filosoficamente il cuore umano, può pensare fino a qual punto la Chiesa educò le anime ed i sensi degli uomini alle più nobili delicatezze. L’arte pagana, così perfetta di stile, non giunse neppure a sentire lontanamente la incredibile forza di amore, pura e senza gesti ripugnanti, alla quale giunsero senza fatica anche i più umili artefici Cristiani, educati dalla S. Chiesa Cattolica, Apostolica Romana.

I nostri artefici, dal rinascimento in poi,, se ne dimenticarono troppo sovente; e io vorrei che un moderno mi sapesse dire, per qual forza un umile  e ignoto pittore di chiese di montagna, riuscì a figurare volti così pieni di anima, come il più robusto ingegno di altri tempi non avrebbe potuto concepire. Imperciocché anche nei volti i Santi della chiesa di Sant’Alberto hanno un sentimento profondissimo e che rapisce. Una dolce malinconia piena di pace, armonizzata con disposizioni alquanto contratte nei muscoli del viso che ricordano una sofferenza per eccesso di amore.

Da tutte queste parti che io ho frettolosamente esaminato, risulta, come ognuno può intendere, un tutto armonico, che dispone alla preghiera, alla malinconia dolce dell’esilio terreno e alla contrizione dei peccati.

Forse la piccola chiesa di S. Alberto, perduta tra i monti, non sa con quanta virtù operò sopra una povera anima che le grandi chiese di città non riuscivano a commuovere. Ma in essa parla la voce serena della Fede, vestita dei suoi semplici abbigliamenti originali e non coperta di fasto che ne nasconde l’aspetto divino. Che benedette siano le mani povere dell’artefice e la santa fede che operò in lui!.

Nella cappelletta del Santo, dietro l’altare, s’è conservato un mezzo tondo, nel muro, dipinto come un trittico (lo chiamo così benché non abbia la cornice) rappresentante S. Lucia, S. Antonio, S. Apollonia e S. Alberto. In mezzo, sopra un trono, la S. Vergine Maria col bambino in piedi sulle ginocchia. È forse la parte più conservata dei vari dipinti, ma è di minor sentimento, anche perché furono alquanto deturpati gli occhi.

Di fronte, molto scalcinato, il miracolo di S. Alberto. È tanto prezioso questo documento della vita del Santo, che il Signore lo volle conservare malgrado l’umido estremo della parete. Il Santo è in piedi, con aspetto calmo e sicuro, in abito da eremita, appoggiato al bordone e benedice ad un vaso di acqua che un garzoncello gli presenta. Egli muta l’acqua in vino. In fondo ad una povera mensa stanno in piedi il Papa e i Cardinali, tutti intenti a mirare il gesto del loro eremita.

Per l’esecuzione è molto più di schietto tipo medievale che gli altri dipinti, e in esso solo si trova la figura di S. Alberto vestito da eremita. In tutte le altre figure è vestito da abate. Così il Signore conservò una duplice memoria: della dignità e della virtù umile del caro Sant’Alberto di Butrio.

Come fu per lungo tempo costume nella decorazione religiosa nella Chiesa di S. Alberto, la pittura non è soltanto simbolica nelle sue varie parti, ma del tutto. In così poco spazio il pittore ha ordinato un’armonia di figure, di simboli e di colori, che forma come un poema della Santa Chiesa Cattolica, madre che insegnò a S. Alberto la Fede e la virtù, e che lo accolse nella sua gloria. Imperciocché nella volta sono dipinti i profeti, simbolo della Legge antica che apparecchiò l’avvento al Redentore.

Sopra la porta d’entrata  N. S. Gesù che esce dal sepolcro, perché con Lui risuscitasse tutto il genere umano. Il Signore, aprendo le braccia, scopre le ferite santissime, tinte di sangue, pel quale siamo stati riscattati dalla schiavitù del demonio. Manifestamente questa figura fu dipinta sopra la porta, per significare che la porta del Regno eterno fu aperta da Gesù Cristo e nella bella movenza delle braccia aperte, mi pare significato che la bontà del Signore apre a tutti le braccia e tutti accoglie nel proprio cuore. Di fronte S. Pietro, custode e padre dei fedeli e della Chiesa. Sopra l’altare gli Evangeli, simbolo della Legge nuova e in mezzo il Santo Agnello col libro simbolico dei sette sigilli.

Dall’una e dall’altra parte del battistero, S. Rocco e S. Giorgio, protettore dei pellegrini e dei cavalieri.Poi S. Francesco che ricondusse il popolo alle evangeliche tradizioni, e nella parete di fronte la Madonna in mezzo a Sante Vergini. La forza divina dei Profeti, il Sangue del Salvatore, i Santi Evangeli, l’autorità di S. Pietro, la santità dei pellegrini e dei cavalieri, nati nel seno della Chiesa e che unirono la grandezza dei poveri e l’autorità terrena in un bacio di pace, e infine il   mirabile dono della Santa Verginità e del Martirio.

Ecco il canto sublime che un umile pittore cristiano immaginò per dar gloria al Santo Abate, che è figurato nella colonna centrale, con S. Antonio, principe degli eremiti, quasi ad indicare che per virtù della vita solitaria ora S. Alberto è accolto in mezzo alla gloria dell’Eterno Regno. Da tanti anni, dalle oscure pareti questo antico canto di santità e di pace dà gloria al Signore e invita gli uomini a desiderare la Beata Corte celeste.

Io credo felici coloro che lo intenderanno.

Laus Deo.

Un eremita della Divina Provvidenza

 


[1] Per una conoscenza biografica documentata si veda Flavio Peloso, Don Gaspare Goggi. Il primo Figlio della Divina Provvidenza, Libreria Editrice Vaticana, 2019.

[2] Per notizie su Sant’Alberto di Butrio e sull’abazia: Lugano Placido, Sull’Abbazia di Sant’Alberto di Butrio, appunti di storia e d’arte in Derthona sacra, Tortona, 1901; Sparpaglione Domenico, Una gemma d'Oltrepò. Sant'Alberto di Butrio. Storia, arte, fede, (IV ed.), Barbati-Orione, 1990; Bernini Fabrizio, La Badia di S. Alberto di Butrio tra storia e fede, Ed. Eremo di Sant’Alberto di Butrio, Pontenizza, 1992; Florian Giulio, S. Alberto di Butrio: cronache del XX° secolo. Ed. Don Orione, Tortona, 1992.

[3] Orione 114, 9.

[4] I primi tre eremiti avevano fatto la vestizione a Stazzano il 30 luglio 1899.

[5] Goggi I, 190.

[6] Goggi I, 192-193.

[7] Era Don Orione, il quale, molti anni dopo, ricordava ancora questa visita: “A Bobbio, c’ero stato con Goggi e Volante, ed eravamo partiti proprio da Sant’Alberto”; a Don Sterpi, Orione 16, 48.

[8] Lettera del 22 Agosto 1900; Goggi I, 194-195.

[9] Scritti di Frate Ave Maria, vol. VIII, doc. 1169.

[10] Pubblicato in “L’Opera della Divina Provvidenza” del 14 settembre 1900; Goggi I, 196-197.

[11] Goggi I, 203.

[12] Derthona Sacra, anno IX, p. 46ss, Tortona 1901; Goggi I, 253-257.

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