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Messaggi Don Orione
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Autore: Nicola Lorenzo



LA LUCE DI DIO SULL'ODIO DEGLI UOMINI

Memoriale di Don Lorenzo Nicola

 

Don Lorenzo Nicola nacque a Cornale (Pavia) il 28 febbraio 1912. Entrò ragazzo nel seminario di Tortona, nel 1921, e nel 1924 seguì il fratello Carlo entrando nella congregazione orionina. Sacerdote nel 1934; singolarmente dotato per gli studi, si laureò in Teologia nel 1935. Fu direttore della casa di Varallo Sesia (1939-1942) e poi fu prefetto dei chierici orionini nella Casa madre di Tortona dal 1942 al 1946. Qui visse in modo attivo ed eroico le tragedie della guerra prodigandosi generosamente, anche a rischio della propria vita, a salvezza e conforto di tutti. Don Lorenzo Nicola allestì con i Chierici orionini una squadra di protezione civile in tonaca nera. Furono molte le azioni di solidarietà che partirono dall'Istituto Teologico dei chierici di Don Orione in Tortona. Molta impressione lasciò la tragedia e l'opera di soccorso in occasione dell'eccidio del Castello di Tortona, avvenuto il 27 febbraio del 1945. In seguito, Don Nicola partì missionario per l’Argentina ove rimase fino al 1956. Fu inviato poi in Spagna, ove fu uno dei protagonisti dell’avvio della congregazione in quella nazione. Nel 1963, tornò in Italia nel tentativo di combattere la leucemia. Morì a Genova-Castagna il 13 settembre 1965.

 

La mattina del 27 febbraio 1944, stavo andando al nostro Istituto Dante Alighieri per vedere se c'erano novità, giacché, nei giorni precedenti su quella scuola si erano appuntati gli occhi del Commandantur sospettosi che la dentro si nascondessero uomini ricercati, partigiani travestiti, pronti ad azioni belliche, gente pericolosa, insomma. Pensavo anche a quello che era avvenuto due giorni prima, la domenica precedente 25 febbraio, i due ufficiali tedeschi erano saliti per una boccata d'aria verso il Castello di Tortona, poi avevano proseguito sino a Vho, dove avevano trovato del buon vino, il migliore giacché i soldi non mancavano loro; ed io li avevo visti qualche volta i tedeschi tagliare con le forbici, sotto i nostri occhi, dei rotoli di biglietti da mille, nuovi fiammanti di zecca, biglietti che purtroppo segnavano, e lo sapevamo, il tracollo della moneta italiana.

Ben bevuti dunque quei due ufficiali e allegri, erano discesi, prima del tramonto, perché il luogo poteva riservare qualche sorpresa Non erano però giunti in città, giacché ancora sulla collina, si erano parati loro d'innanzi, dieci uomini in divisa cachi con mitra e sten, intimando loro la resa... Fossero stati a mente fresca e libera dai fumi, forse l'avrebbero accettata - due pistole contro dieci mitragliatori possono poco o nulla, anche se nessuno dubitava che i tedeschi erano buoni soldati - i partigiani d'altronde, non erano venuti per fare una passeggiata, erano stati mandati con un impegno: prendere vivi i due ufficiali.

Qui bisogna ricordare che, poco tempo prima uno dei capi partigiani era stato arrestato a Milano: si trattava di Marco ufficiale della Caserma Passalacqua in Tortona fino all'otto settembre, e poi organizzatore delle forze partigiane in Val Curone. Si era recato a Milano per dare l'ultimo a suo padre morto: non aveva avuto cuore di non vederlo, almeno, prima che lo seppellissero... Poco dopo erano in casa sua le SS... Gli amici volevano salvarlo e capirono che non c'era altra cosa fattibile, per risparmiargli la fucilazione, che lo scambio e quante condizioni occorressero per porlo in atto. I due ufficiali, incontrati e presi sul castello erano una buona moneta di scambio con il comandante Marco.

Purtroppo però la cosa non andò per il verso giusto. I due ufficiali non s'arresero anzi fecero fuoco: uno si mise dietro l'altro, il primo si chinò e il secondo sparò alcuni colpi... I partigiani risposero.

Io li conoscevo bene quei due ufficiali, passeggiatori di quella domenica. Uno era il comandante del campo di Tortona, il capitano Schulz, rimasto subito ucciso: un bravo uomo, esatto, cortese, succeduto al capitano austriaco Otto Poschl, sotto il suo comando erano usciti molti prigionieri. Per la verità sul principio temeva anche me, il cappellano, e chi lo aiutava; noi vedevamo il suo riserbo, e fin la sua diffidenza, pero ogni giorno che passava più si avvicinava. Del resto noi non abbiamo mai chiesto nulla ai detenuti, abbiamo sempre loro dato. Quando poi incominciavamo a star bene, voglio dire, in pace, con la possibilità di svolgere il nostro ministero di pietà e di carità egli venne ucciso. Tengo di lui un buon ricordo: mi pare fosse prussiano; so che aveva un figlio ancora piccolo, alto serio ritto, era dedito al suo dovere, di cuore. Ricordo che, una volta, avendo una buona provvista di tabacco per i detenuti volli che fosse presente lui a distribuirlo. Noi dicevamo buone parole ed egli le traduceva. Come partecipava alle ansie di quei poveretti! Non dava fastidio a nessuno: esigeva, si sa, che ognuno facesse il suo dovere.

L'altro invece di nome Vogel, era incaricato del collocamento degli operai e so che, quando poteva fare un opera buona, la faceva. I due non avevano incarichi strettamente militari: forse, anche per questo, i partigiani speravano che non opponessero resistenza. Vogel era cattolico e Schulz protestante. Un'ambulanza li portò all'ospedale, dove li trovai e alzai per loro una cordiale benedizione, anche a conforto delle loro famiglie lontane.

II 26 febbraio dunque, verso le due pomeridiane, coi miei aiutanti, i chierici Eugenio Manduca e Giovanni Ghezzi, poi sacerdoti accompagnavo i due ufficiali morti verso Alessandria, dove c'era un reparto riservato per i militari germanici. Avevo però nell'animo l'ansia di sapere cosa sarebbe avvenuto, giacché la città era convinta di un'immancabile rappresaglia per quei due morti. Sapevamo che dove non c'erano, o non si trovavano ribelli, c'erano sempre uomini o giovani a disposizione dei tedeschi, per strada, nei bar, sul lavoro: e questo spaventava.

L’ispettore del campo di concentramento maggior Stenbuch, ci aveva lasciato sperare che non ci sarebbe stata rappresaglia. Invece la sera del 26 febbraio, il comandante delle Brigate nere di Tortona mi aveva assicurato che ci sarebbe stata.

Quel giorno s'era fatto un consiglio di guerra in Alessandria, tra il colonnello tedesco Becker, il generale italiano comandane di Alessandria, altri militari e Gianelli, comandante delle Brigate nere, che, in altri casi, aveva ottenuto remissione. Ora invece Gianelli aveva soltanto ottenuto che, per la rappresaglia, non si prelevassero elementi tortonesi. Conclusero che invece di venti, come avrebbero dovuto, ne eliminassero soltanto dieci, e non di Tortona. Questi li pigliarono dalle carceri di Casale Monferrato; però, sembrava che tutto fosse tramandato di qualche giorno, e intanto noi si lavorava perché tutto restasse solo un decreto su carta.. . non ci dettero tempo.

La mattina dunque del 27 febbraio - come ho accennato all'inizio - io andavo dalla casa centrale di don Orione verso il collegio Dante Alighieri. Va detto che avevamo allora, in Tortona, la polizia delle Brigate nere, il corpo di polizia della Caserma Passalacqua, la polizia tedesca, i nostri carabinieri: sapevamo di avere occhi addosso da ogni lato. A un certo punto, tuttavia, vedo venire incontro a noi, ero con un ragazzo, una macchina, carica di quattro tedeschi e un civile, e un camion blindato, scoperto, con sopra, alla rinfusa, militari delle SS, italiani e parecchi borghesi.

- Ci siamo! Pensai e un rastrellamento!
Chiesi a un poliziotto di mia conoscenza:
- Che significa?
- Vanno a fare rappresaglia dei due tedeschi, mi rispose.

Io pensai tante cose: consultare le autorità, i partigiani? Ma c'era soltanto il gioco di una decina di minuti... Sono prete: cercherò di salvare il salvabile: cioè l'anima di quei poveretti.
- Hanno avuto il prete? chiesi al poliziotto.
- No. Chieda però al nostro comando.

Via, al comando della Guardia Nazionale repubblicana, al Corpo dei Carabinieri. Ma ovunque nervosismo accentuatissimo.
- No, non hanno avuto il prete, anzi non sapevano neanche di essere condotti alla morte: quando li trassero dalle carceri di Casale avevano detto loro che sarebbero andati a lavorare.

Corsi alla vicina S. Maria Canale, chiesi al parroco il necessario. E su, di corsa, alla salita più breve verso il Castello: con me c'erano don Poggio, e il questurino. Ricordo che, nei posti d'ombra, c'era ancora la brina. All'incrocio, tra la strada per Villa Charitas e quella che porta alla Valletta, un soldato italiano discendeva, livido per la rabbia, gridando contro i tedeschi.
- Li hanno ammazzati? domandiamo.
- No! fa cenno col capo, e continua a maledire.

Vediamo da dove egli viene. Saranno dunque nella Valletta, penso. E intanto, dopo di lui, viene un altro militare, nelle stesse condizioni d'animo: non volevano macchiarsi di sangue fraterno.
Di corsa giungiamo sulla spianata: un'occhiata e comprendiamo tutto...
Che umiliazione! La nostra torre, che ha sfidato, per opera dei nostri padri, e tenuto testa agli inutili sforzi del Kaiser di allora, il Barbarossa, deve assistere impotente alla soppressione di dieci nostri fratelli per mano di altri fratelli! E penso alla grandiosa processione della Madonna della Guardia, che saliva questo colle osannando a Maria, mentre, da quella torre, don Orione scandiva le lodi della Vergine, madre nostra, e auspicava glorie religiose e civili alla diletta nostra città e alla Patria.

Ecco: attorno al camion, come visto minuti prima, stanno una quindicina di SS, italiani con moschetti e mitra. Ufficiali tedeschi esaminano la Valletta: sul viottolo, che conduce di fronte alla torre, venti militari italiani della caserma Passalacqua sono con le armi pronte al fuoco.

I dieci stanno ancora sul camion. Non c'e tempo da perdere. Prego una brigata nera:
- Chiedi, per favore, ai tedeschi se mi lasciano avvicinare quei dieci: sono il cappellano del Sammelagher, campo di concentramento.

Intanto che attendo quei dieci mi dicono:
- Padre, non abbiamo fatto nulla, e ci ammazzano.. .
Uso parole di quella fede che, unica, può suggerire:
- Ragazzi, voi vedete che vi succede: se gli uomini sono cattivi, voi sapete che il Signore è buono: prendete con rassegnazione questo sacrificio e offritelo a Dio, anche per il perdono dei vostri peccati: egli ve li perdona tutti.
E traccio su loro, con le parole, una larga benedizione. Fanno il segno della croce.

Non ho finito, che un maresciallo tedesco è giunto vicino a me. Dalla faccia dell’altro milite, mandato da me, capisco che c'e tempesta. II tedesco dimena infatti rabbiosamente uno sten, me lo mira contro e mi grida, in un italiano peggiore del mio tedesco, che quelli erano delinquenti e che io non ero corso ad assistere i loro due morti... E mi preme allo stomaco lo sten. Gli rispondo che non ho assistito i suoi, perche lo seppi soltanto quando essi erano già all'ospedale, ma tutto era stato fatto da un frate Cappuccino e dal cappellano dell'ospedale: era come se l'avessi fatto io.
E continuo a spiegargli che quei due ufficiali tedeschi io li conoscevo bene e ripeto i loro nomi. Quello capisce e mi lascia, facendo scendere dal camion i dieci, che mi guardano come per dirmi: Abbiamo visto... hai fatto quanto potevi...
Tolgo dalla tasca il mio rosario e comincio a recitarlo. Essi vedono che prego per loro.

Li dispongono nella Valletta: io grido agli altri italiani:
- Voltiamoci... non dobbiamo vedere cadere i nostri fratelli.

Sentiamo una voce che, per somma irrisione, e con inspiegabile stoltezza, li invita a gridare: Via il duce, viva il fuhrer!
Faccio a tempo un istante prima a benedirli. Mi hanno visto che li benedicevo. Poveri figli! Lontani dalle loro madri e dalle loro famiglie. Solo il Signore li ha aiutati efficacemente, quando i moschetti hanno sparato: non col sottrarli ai moschetti assassini, ma aprendo loro il suo cuore, che e il più grande bene che si possa desiderare. "Ci sono pene - ho letto in qualche libro - che solo il Paradiso potrà consolare".

Prima di scendere dal famoso camion, uno mi diceva:
- "Padre, mi saluti mia madre. Le dica che non ho fatto niente di male!
Un altro mi diceva:
- "Padre, baci i miei figli!".
Lasciava cinque figli, tutti piccoli.

Quando mi volto verso la Valletta, un ufficiale, capopolizia, stava dando a ciascuno il colpo di grazia! Mi affretto e scendo verso di loro: passo davanti al plotone dei giustizieri: il fratricidio li fa vergognare: io non li guardo: se ne accorgono e restano mortificati. Il capo della polizia mi grida: "Kamerade weg!", via, via!
Non potevo dar loro i conforti religiosi? In altri casi, di persone fucilate da fascisti e antifascisti, ho trovato sempre comprensione verso i morti ma quella gente!
Mi volto verso la valletta. Un ufficiale, stava dando a ciascuno il colpo di grazia.

L'ufficiale italiano mi avvicina:
- Padre, il Signore ci perdonerà per quello che abbiamo fatto? Anzi, dovuto fare?
Gli rispondo che il peccato di chi li ha mandati e più grande. Capisco che al capopolizia si è inceppata l'arma, e s'infuria. Non vuole accettare quella che gli porge il comandante di Tortona. Rabbia e orgoglio si fondono insieme. Deve rassegnarsi a prenderne un'altra per continuare a fare il boia.

Io invece ho ancora da continuare la mia opera. Con modi di sfida chiedo se posso continuare.
I tedeschi hanno lasciato ordine che i morti rimangano li, in quello stato sino al giorno dopo, perche tutti i tortonesi vedano come loro sono capaci di vendicare i loro morti!
Prego alcuni fascisti di stare a guardia, di chiudere le strade, perché nessuno venga a vedere 1'umiliazione di noi italiani. Poi però la pietà e la curiosità la vincono.
Si sparge la notizia, accorrono: Tortona e shoccata!
I tedeschi, il 10 marzo, ricopriranno i muri della città con annunci, in italiano e tedesco, e i nomi delle povere vittime, e qualcuno aggiungerà che essi sono "responsabili di ben 192 omicidi”. I loro volti, poverini, non me l'avevano fatto immaginare, ma accusare e facile.

A casa, richiesto di notizie dal nostro don Pensa e dagli altri superiori, non riesco a rispondere. Un gran pianto mi lega la gola. Sento da loro, invece, che nel frattempo, un ingegnere del municipio ha telefonato, dicendo che i tedeschi hanno incaricato l'autorità cittadina di seppellire quei poveretti lassù al Castello, ma il comune non trova uomini per il triste incarico: chiedeva che si mandassero i nostri chierici.

Allestiamo una squadra volante di quindici chierici, con pale e picconi, don Venturelli è incaricato di guidarli e di raccogliere dati dei dieci per poi eventualmente identificarli con l'aiuto dei parenti: ma non smuoverli, non fotografarli.
La gente per strada si domanda dove vanno quei "preti".
Giungiamo lassù: tutto come avevo lasciato. Una preghiera e poi al lavoro.
Nell'altro lato della valletta s'apre una specie di fossato a zig-zag, scavato come rifugio antiaereo e poi abbandonato. Don Venturelli cerca qualche cosa sui corpi di quei poveretti.
- Uno soltanto, mi dice, Oscar Adenzato, aviatore, ha la carta d'identità. Invece il suo nome Giuseppe Sogno lo porta in tasca, su delle bustine, con una polverina, che si ritrovano anche nelle tasche degli altri.

Prendiamo a ciascuno qualche ritaglio degli abiti e indumenti e li riponiamo in buste, che numeriamo 1, 2, 3, ..., per poi riconoscerli con la collaborazione dei parenti.
Quando la grossa, oblunga fossa è pronta già calano le ombre grigie del febbraio.
Con la scusa che i poveretti possono fare impressione, preghiamo i presenti, accorsi nel frattempo, di stare lontani. La signora Bonissone, che è corsa nelle case vicine a cercare lenzuola, comincia il rosario. Teniamo il posto dei familiari degli uccisi, delle madri, delle spose, dei figli.
Quando tutti sono collocati nella grande buca e le buste hanno raccolto il più possibile dati - lavoro di cui si interessava con sentita pietà don Venturelli - concludiamo con un ultima preghiera. E' ormai notte fonda e gelida.

L'indomani compio 33 anni e spero proprio di trascorrere "gli anni del Signore" in raccoglimento. Invece, di ritorno da un'ennesima visita alle autorità di Alessandria, per riferire l'accaduto, trovo che il comando tedesco ha deciso di togliere quei poveretti dalla fossa provvisoria del Castello. I superiori mi consigliano di fare tutto quanto è possibile.

Si temeva forse che i corpi dei partigiani venissero sottratti, come era avvenuto altre volte?
Voglio interpellare l'ingegnere del comune, insisto sulla necessità di una bara per ciascuno presso il Commandantur, che ce la nega e si inquieta perché ci siamo rivolti e consigliati con il comune. E aggiunge che, alle sei di sera, tutto deve essere concluso.
In un posto riservato agli acattolici? Sono cristiani e non e giusto seppellirli in luogo non benedetto.

Con l'ingegnere e il custode del cimitero signor Alberti, si decide: appena fuori dal cimitero.
Un giovane offre un carretto con cavallo.
Do disposizioni precise a don Venturelli e ai chierici, che stavano lassù e lavoravano con lena.
- Attenti a conservare la numerazione.
Man mano che giungono le salme, una preghiera, e tutto viene ordinatamente sistemato.

Sino al 6 di aprile, quando le salme potranno essere finalmente raccolte, ancora, dai nostri, in casse di legno, e seppellite nella pace del cimitero.
Intanto, nei giorni seguenti l'eccidio, don Venturelli ha ancora il suo daffare nel ricevere, confortare, informare i parenti. Scene desolanti e lacrime senza fine.
Chiudo con una supplica.
"Valga il vostro sacrificio, o dieci fratelli del Castello di Tortona, ed il vostro, voi due figli della grande nazione tedesca, unita alla moltitudine di fratelli sacrificati su tutti i fronti d'Europa, a ottenere da Dio misericordia su questa povera umanità! Per il mondo nuovo, inizi l'era della pace in Dio!".

DON LORENZO NICOLA

 

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