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Messaggi Don Orione
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Nella foto: (da sin.) Flavio Peloso, Elio Sgreccia, Livio Melina, Davide Gandini. Roma - Monte Mario, 6 giugno 2012.
Autore: Flavio Peloso

Si tratta della relazione di Don Flavio Peloso al Convegno di bioetica Cos'è l'uomo perché te ne curi?, destinato a operatori socio sanitari nelle istituzioni orionine (Roma Monte Mario, 6 all'8 giugno 2012). Nelle tre giornate del Convegno, coordinato dal Dott. Davide Gandini, ci sono state le relazioni del Card. Elio Sgreccia su Bioetica personalista, Prof. Livio Melina su Concetto di persona, Don Flavio Peloso sulla Visione di Don Orione sull'uomo e sul servizio alla vita debole, on. Carlo Casini su Implicanze giuridiche del concetto di persona, Prof. Giuseppe Noia su Implicanze mediche del rispetto della persona, Don Flavio Peloso su Visione e prassi di Don Orione nei confronti della persona debole, Prof. Roberto Franchini sulla Qualità della vita nelle residenze socio-sanitarie. Due esperienze specifiche e di avanguardia dell'opera orionina sono state presentate dal Dott. Giambattista Guizzetti, direttore sanitario del Reparto Stati Vegetativi del Centro Don Orione di Bergamo, e dalla Dott.sa Ewa Swic, medico del Reparto Cure Palliative dell'Opera Don Orione a Wolomin (Polonia). Gruppi di studio hanno riflettuto sulle prassi socio sanitarie alla luce dei principi e valori cristiani e orionini.

CHE GRAN COSA È L'UOMO PERCHÉ TE NE RICORDI!

Pongo per titolo CHE GRAN COSA È L’UOMO PERCHÉ TE NE RICORDI! alla presentazione di alcuni frammenti di antropologia orionina o più semplicemente alcune penellate della visione dell’uomo espressa e vissuta da Don Orione.

Non ho mai dimenticato la presentazione del Salmo 8 fatta in questo stesso edificio dal mio professore di Sacra Scrittura, Don Gino Bressan, tutta riassunta nell’enfasi che egli metteva nel leggere il testo:

 

(māh esclamativo) 2 O Signore, nostro Dio,

quanto è grande il tuo nome su tutta la terra:

sopra i cieli si innalza la tua magnificenza.

3 Con la bocca dei bimbi e dei lattanti

affermi la tua potenza contro i tuoi avversari,

 per ridurre al silenzio nemici e ribelli.

4  Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita,

la luna e le stelle che tu hai fissate,

(māh esclamativo) 5  che gran cosa è l'uomo perché[1] te ne ricordi

e il figlio dell'uomo perché te ne curi!

6  Infatti[2] l'hai fatto poco meno degli angeli,[3]

di gloria e di onore lo hai coronato:

7  gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,

tutto hai posto sotto i suoi piedi;

8  tutti i greggi e gli armenti,tutte le bestie della campagna;

gli uccelli del cielo e i pesci del mare,che percorrono le vie del mare.

(māh esclamativo) 9  O Signore, nostro Dio,

quanto è grande il tuo nome su tutta la terra.[4]

 

Don Orione è un santo, un uomo che vedeva Dio, un uomo che vedeva in Dio tutte le cose, il mondo, l’uomo, la società, la storia, il futuro. E, di conseguenza, a Dio tutto riconduceva nel movimento dell’Instaurare omnia in Christo.

La visione di Don Orione sull’uomo potrebbe essere riassunta nella sua nota espressione “nel più misero dei fratelli brilla l'immagine di Dio",[5] oppure anche “vedere e sentire Cristo nell’uomo”.[6] Qui è la grandezza dell’uomo, la sua sacralità, la sua dignità incondizionata da qualunque altra qualità di vita.

Prima dell’azione verso chi ha bisogno di cura, in Don Orione scattava  la contemplazione della “imago Dei”, per cui il servizio al prossimo e il culto a Dio si implicano e si rafforzano reciprocamente.

Don Ignazio Terzi, nei suoi ricordi personali del Fondatore, ha annotato di aver visto in Don Orione lo stesso senso di rispetto e di adorazione di fronte all’Eucarestia, di fronte ai Vescovi e davanti ai Poveri.

Tante volte ho come intravisto Gesù, nei più reietti e più infelici”,[7] affermò Don Orione fuori da metafore. Viene da pensare alla contemplazione di Michelangelo che “intra-vedeva” il Mosè dentro il masso informe di marmo e, di conseguenza, scattava la sua azione competente e appassionata per “tirarlo fuori”, per farlo emergere. L’azione di aiuto, nei suoi diversi momenti e ambiti, ha sempre bisogno di contemplazione, di visione dell’imago Dei in un corpo nascente, limitato o in diminuzione. Solo così si supera il materialismo e la mancanza di sentimenti nella routine del servizio alla persona debole e bisognosa.

Sviluppare la “presenza divina nell’uomo”, restaurare, esprimere la “presenza divina nell’uomo”, radice ultima della dignità di ogni persona: questo è il nobile motivo dell’agire in aiuto di chi è debole e bisognoso di sostegno.

I poveri, i disabili, i “rottami della società” erano da Don Orione chiamati, senza retorica, "i nostri tesori", le nostre "perle", i nostri "padroni" (sappiamo che solitamente chiama padrone di casa Gesù presente nel tabernacolo). "I nostri cari poveri... non sono ospiti, non sono dei ricoverati, ma sono dei padroni, e noi loro servi, così si serve il Signore".[8]

“Sono i nostri intercessori; questi andranno tutti in Paradiso” esclamava con gioia e ovvietà Suor Maria Lucilla, per oltre 60 anni al Piccolo Cottolengo, presentandomi i piccoli infermi. Non sono espressioni pietistiche. Sono la ragione dell’amore e della pazienza nel dare la vita per questi fratelli. Sono il motivo per cui Suor Maria Plautilla, malata di tubercolosi, diede la vita a 34 anni nell’ultimo sforzo per salvare una malata mentale che stava per gettarsi dalla finestra.

Don Orione ha un concetto molto realistico del povero - da maniche rimboccate, senza voli poetici e sentimentali - e contemporaneamente ha ne una visione quasi sacra: "nel più misero dei fratelli brilla l'immagine di Dio"; "vedere e servire Cristo nell'uomo"; "chi dà al povero dà a Dio e da Dio avrà la sua ricompensa". Sono eco delle parole di Gesù: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli – assicura Gesù -, l'avete fatto a me” (Mt 25, 40).

È la fede che fa vedere tutto l’uomo, perché l’”essenziale è invisibile agli occhi";[9] la fede fa comprendere che “gran cosa è l’uomo”. Per questo, “se il contatto con Dio manca del tutto nella mia vita – osserva Benedetto XVI -, posso vedere nell'altro sempre soltanto l'altro e non riesco a riconoscere in lui l'immagine divina” (Deus caritas est 18).

Certamente è la fede che guida e sostiene Don Orione nel suo impegno di solidarietà e di aiuto verso i più deboli e svantaggiati della società: essi sono i prediletti di Dio, sono un’ostia sacra, come Emanuel Mounier definiva la sua figlioletta gravemente limitata. "Iddio ama tutte quante le sue creature, ma la sua Provvidenza non può non prediligere i miseri, gli afflitti, gli orfani, gli infermi, i tribolati d'ogni maniera, dopo che Gesù li elevò all'onore di suoi fratelli (...) L'occhio della Divina Provvidenza è, in special modo, rivolto alle creature più sventurate e derelitte".[10]

Da questa visione delle persone segnate dai limiti e dal dolore raccogliamo tre indicazioni pratiche per modellare le nostre strutture socio-sanitarie, o case di carità, come ancora preferiamo chiamarle.

La prima. Occorre unire alle motivazioni della ragione quelle della fede che svela che lì, in quelle vite bisognose di aiuto, c'è un segno speciale di Dio, della sua Provvidenza, del valore assoluto della vita. Allora fluiscono gli atteggiamenti di accoglienza, di rispetto, di devozione, di servizio competente (dare loro il meglio!), di cura, di relazione, di "dare e ricevere"[11] che l’etica e i protocolli professionali non sono sufficienti a garantire e ad alimentare.

La seconda. Occorre strutturare e gestire la casa di carità contemporaneamente come ospizio (ospitalità), come sanatorio (aiuto sanante), come azienda (oggi sempre più complessa) e come tempio (culto a Dio e alle sue immagini).[12]

La terza. Come i sacerdoti devono evitare la sindrome del funzionario del sacro, cioè di un servizio senza relazione con Dio, così mi pare di dover dire agli operatori socio-sanitari di evitare la sindrome del funzionario dell’umano, cioè di un servizio senza relazione con l’uomo

 

UN CONCETTO ALTO DELL’UOMO

Sono partito da questi richiami “contemplativi” del Salmo 8 e di Don Orione riguardanti la visione e il servizio all’uomo, e all’uomo debole, perché mi pare che è dalla visione positiva e alta dell’uomo che può fondarsi sia una adeguata etica della prassi professionale nel servire la vita debole e sia la passione umana e spirituale, necessaria nel lavoro di ogni giorno. L’etica e la competenza professionale è importante ma non è tutto. Ci vuole la passione professionale.

Ma questo richiamo contemplativo circa la grandezza dell’uomo è oggi particolarmente necessario anche per una ragione specifica del nostro contesto culturale attuale.

La vita umana è sempre stata circondata da pericoli, minacciata di violenza e di morte. Però oggi, non si tratta solo di minacce che provengono dall’esterno, dalle forze della natura o dai “Caino” che assassinano gli “Abele”. Oggi la minaccia principale alla vita viene dalla visione nihilista, dalla disistima della vita, dalla cosificazione della vita, che hanno diffuso una cultura della morte e prassi di morte addirittura scientificamente programmate, socialmente giustificate e legalmente regolate.[13]

C’è la violenza esercitata contro milioni di esseri umani che sono sotto la soglia della povertà e muoiono di fame, il commercio scandaloso di armi che continua nonostante tante denunce, gli squilibri economici, lo sfruttamento del lavoro a scapito della vita, e le tante “strutture di peccato” che sono tali perché coscientemente e volutamente offendono la vita umana. Si è arrivati al punto di considerare espressione di progresso e di civiltà la morte richiesta, provocata o data volontariamente, come nel caso di aborto ed eutanasia. Dalle sue fasi iniziali fino ai momenti terminali la vita umana soffre l’incomprensibile assedio degli esseri umani stessi.

Oggi occorre ribaltare con la forza e le prassi della ragione e della fede la cultura della morte; occorre vincere con il veritatis splendor l’oscuramento della ragione e con il calore dell’amore il gelo mortale dell’egoismo (omnia vincit amor).[14]

Di fronte alla vita, soprattutto quando è debole o minacciata, come uomini, come cristiani e come membri della Famiglia Orionina, intendiamo vivere l’umanesimo personalista, riconosciuto dalla ragione, confermato dalla fede, assunto e trasmesso da Don Orione. È un umanesimo che ci fa valorizzare, difendere e sviluppare tutto il positivo presente nella vita delle persone, nelle cose e nella storia, credere nella forza del bene ed impegnarci a promuoverlo più che a lamentarci del male, amare la vita di tutti gli uomini di tutto l’uomo in tutte le condizioni.

 

UN CONCETTO ALTO DI DIO

Un tale impegno si fonda su ragioni di umanità intrinseche. Noi cristiani, inoltre, ci sentiamo interpellati da Dio amante della vita, o, come diceva Don Orione, dalla sua Divina Provvidenza, a custodire e sviluppare la sua creazione, le sue creature.

La vita umana sgorga dallo Spirito stesso di Dio, è soffio divino, siamo stati creati a sua immagine e somiglianza, sulla nostra esistenza aleggia l’amore divino: “che gran cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi!”.[15]

Dio ama tutti gli esseri. Non può odiare nulla di quanto ha creato amorosamente.

Contro ciò che possono pensare coloro che vivono con l’oscura convinzione che Dio costituisca una minaccia per l’essere umano ed una presenza opprimente, che occorre eliminare per vivere e godere più pienamente dell’esistenza (o io o Dio),[16] noi proclamiamo la nostra fede in Dio come il miglior amico dell’uomo e il difensore più sicuro della sua vita, il Padre.

Tu ami tutte le cose esistenti e non provi disgusto per nulla di quanto hai creato – scrive l’autore del libro della Sapienza -. E come potrebbe sussistere una cosa, se tu non volessi? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza? Tu sei indulgente con tutte le cose, perché tutte sono tue, Signore, amante della vita; poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose” (Sap 11,24-12,1).

Papa Benedetto XVI ricorda che “La vita umana è una relazione. E la relazione fondamentale è la relazione col Creatore, altrimenti le altre relazioni sono fragili. Scegliere Dio, quindi: questo è essenziale. Un mondo vuoto di Dio, un mondo che ha dimenticato Dio, perde la vita e cade in una cultura di morte.[17] Scegliere la vita, fare l'opzione per la vita, quindi, è, innanzitutto, scegliere l'opzione-relazione con Dio”.[18]

È l’amore di Dio che ci spinge ad amare la vita, a promuoverla con un servizio responsabile, a difenderla con speranza, ad annunciarne il valore ed il senso, specialmente ai più deboli e indifesi, a quanti vanno alla deriva tra il vuoto e l’inquietudine, tra la minaccia e la disperazione.

D’altra parte, sappiamo che è l’amore alla vita che ci porta a invocare, a incontrare ad amare Dio. Ecco, c’è questa reciprocità inscindibile e benefica: l’amore a Dio porta all’amore alla vita e l’amore alla vita porta all’amore di Dio.

 

DI FRONTE ALLA VITA, DA FIGLI DELLA DIVINA PROVVIDENZA

Sia di fronte a tanto impegno a favore della vita e sia di fronte ad assurdi atteggiamenti anti-vita, la nostra Congregazione, con Don Orione e in comunione con la Chiesa, cerca di testimoniare il valore della vita, di promuovere la vita e di difenderla con il servizio concreto e anche con la parola affinché di diffonda un’autentica cultura della vita.

Il nostro ultimo Capitolo generale, con la decisione 28, ha chiesto che “Ogni provincia, discernendo nella propria realtà le forme con cui la vita è più minacciata (vita nascente, vita debole, immigrati, ecc.), definisca le azioni più significative per la sua difesa”.

Credo che questa intenzione e dinamica di amore alla vita dovrà, nel prossimo futuro della nostra Famiglia Orionina, animare e configurare di più e meglio le nostre opere di servizio alla vita debole nascente, limitata e in diminuzione, affinché esse possano essere effettivamente “fari di fede e di civiltà”.

È proprio l’inscindibile dinamica di amore alla vita e di amore a Dio che ci fa capire come le opere di carità, come concepite da Don Orione, svolgano il prezioso e contemporaneo ruolo di  evangelizzazione della Provvidenza di Dio e di elevazione umana e civile, cioè di “fari di fede e di civiltà”.

Ciò è ancor più necessario ed efficace oggi, in un’epoca di secolarismo e di fede debole, in un’epoca di nihilismo e di pensiero debole che rendono la società debole. Infatti, come ha osservato Benedetto XVI, “La misura dell'umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana” (Spe salvi 38).

Questo scopo ulteriore ma intrinseco alla missio delle opere di carità orionine chiede che le strutture socio-sanitarie della Piccola Opera siano concepite, modellate e gestiste curando insieme alla qualità dei servizi la carità delle relazioni e insieme al bene dell’istituzione il bene della città.

Il Piccolo Cottolengo di Genova – annunciava Don Orione - diventerà la 'cittadella spirituale di Genova'. Altro che la lanterna che sta sullo scoglio! Il Piccolo Cottolengo sarà un faro gigantesco che spanderà la sua luce e il suo calore di carità spirituale anche oltre Genova e oltre l'Italia”.[19]

La dinamica di faro sarà possibile se al Piccolo Cottolengo, e in qualunque altra opera al servizio della vita debole, ci sarà luce all’interno, cioè qualità di vita, servizio competente, fede, amore fraterno, vita bella, e se attuerà dinamiche di relazione con la città, con persone e luoghi che costituiscono il tessuto civile di cui l’opera è parte e a cui è destinata come suo fine ultimo.

 

Saremo capaci di passare dal servizio alla carità e dalla carità all’annuncio di Dio (faro di fede) e dell’uomo (faro di civiltà)?

In realtà, se un'opera non avesse luce di caritas e se fosse chiusa in se stessa perché non comunica favorendo relazioni con famiglie, amici, parrocchie, organismi laici, società civile, Chiesa… sarebbe un’opera orioninamente morta, perderebbe la sua dinamica di “faro” che diffonde luce fuori, lontano, luce di fede e di civiltà. Le opere cesserebbero di essere “pulpito” apostolico e “cattedra” di civiltà, per dirla con altre immagini care a Don Orione.

Oltre a servire la vita debole, è necessario dunque trovare il linguaggio e le relazioni per raccontare al mondo, certo con umile pudore ma anche con convinzione e decisione, l’esperienza di vita nuova e di nuova civiltà, vissuta a partire dall’aiuto ai più deboli secondo la legge fondamentale del servire e dell’amare.

Niente falsi pudori e timidezze, “bisogna che vi buttiate ad un lavoro che non sia più solo il lavoro che fate in chiesa” e nelle opere della chiesa.[20] Non dobbiamo però seguire l’idolo della visibilità che oggi porta a esibizionismo con le tecniche di ingigantimento e di falsificazione. Si tratta semplicemente di essere in relazione come il sale e il lievito dentro la società o anche lucerniere che “Non si accende per metterlo sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa”.[21]

Questa attenzione a tutti, il tutti sociale, è molto tipico di Don Orione che sempre congiungeva carità personale e carità sociale, carità verso i prossimi e passione per i lontani.

Don Terzi ha raccontato che, ancora laico, faceva parte di un gruppetto di giovani universitari accompagnati da Don Orione in visita al Paverano di Genova. Don Orione, dopo averli lasciati per andare intrattenersi con alcune persone distinte della città, ritornando disse loro: "Vedete, questa opera è certamente per questi poveri che vi sono ospitati, ma, vorrei dire ancor più, è per quelli là, perché vedano e apprendano la carità e si avvicinino a Dio".

Parlò anche di un noto personaggio di Genova: "Salvatore Sommariva mi ha detto: Non credevo in Dio, ma ora ci credo perché l'ho visto alle porte del Cottolengo".[22] Ciò corrisponde a quanto affermava Sant’Agostino ”Se vedi la carità, vedi la Trinità”, ricordato da Benedetto XVI in Deus caritas est 19, prima di parlare dei “santi sociali” (n.40) tra i quali nomina Don Orione.[23]

A Don Adaglio, dava direttive per l'avvio della Piccola Opera in Palestina: "Bisogna che su ogni nostro passo si crei e fiorisca un'opera di fraternità, di umanità, di carità purissima e santissima, degna di figli della Chiesa nata e sgorgata dal Cuore di Gesù: opere di cuore e di carità cristiana ci vogliono. E tutti vi crederanno! La carità apre gli occhi alla Fede e riscalda i cuori d'amore verso Dio".[24]

 

CONCLUSIONE

Concludo questi frammenti di antropologia e pastorale orionina richiamando le parole di Benedetto XVI al termine del 13° Capitolo generale, quando è venuto a benedire la Madonnina qui a Monte Mario, il 24 giugno 2010.

“Continuate, cari Figli della Divina Provvidenza, su questa scia carismatica da lui iniziata, perché, come egli diceva, “la carità è la migliore apologia della fede cattolica”, “la carità trascina, la carità muove, porta alla fede e alla speranza”.

Le opere di carità, sia come atti personali e sia come servizi alle persone deboli offerti in grandi istituzioni, non possono mai ridursi a gesto filantropico, ma devono restare sempre tangibile espressione dell’amore provvidente di Dio. Per fare questo - ricorda don Orione - occorre essere “impastati della carità soavissima di Nostro Signore” mediante una vita spirituale autentica e santa. Solo così è possibile passare dalle opere della carità alla carità delle opere, perché - aggiunge il vostro Fondatore - “anche le opere senza la carità di Dio, che le valorizzi davanti a lui, a nulla valgono”.

 

In questo testo è indicato il percorso umano proposto agli operatori socio-sanitari orionini:

  • svolgere i servizi alle persone
  • non solo come gesto filantropico
  • ma anche come tangibile espressione dell’amore provvidente di Dio
  • e dunque essere “impastati della carità soavissima di Nostro Signore
  • mediante una vita spirituale autentica e santa.

È un percorso compiuto, per esempio, dal professor Domenico Isola,[25] medico al Piccolo Cottolengo di Genova, e da tanti altri con lui e dopo di lui: “Siano grazie a Lei, caro Sigr. Prof. Isola, e a quanti La coadiuvano, animati da quel Suo spirito alto, che è amore ai miseri, che è fede, che è scienza e bene. Dio La ricompensi largamente, e La conforti in codesto apostolato di intelligente bontà!”.[26]

 

[1] Da intendere come “dal momento che… giacché… proprio perché…”.

[2] Nuova Versione della Bibbia della CEI  traduce“Davvero l’hai fatto poco meno degli angeli”.

[3] Sarebbe da tradurre meglio “poco meno di un dio”, essendoci la parola Elohim, divinità.

[4] G. Bressan. Altre cinquanta preghiere bibliche, Atena Editrice, Roma, 1999, p.526-533. San Pier Crisologo, pur non facendo l’esegesi della seconda strofa, si espresse nella linea per la meraviglia della grandezza dell’uomo: “O uomo, perché hai di te un concetto così basso, mentre sei così prezioso per Dio? Perché mai, tu che sei così onorato da Dio, ti spogli irragionevolmente dei tuo onore?... Tutto questo edifício del mondo, che i tuoi occhi contemplano, non è stato forse fatto per te?... Per te è stata regolata la notte, per te definito il giorno, per te il cielo è stato illuminato dal diverso splendore (fulgore) del sole, della luna e delle stelle... Tuttavia il tuo creatore trovò (excogitat: quasi «gli viene in mente») ancora qualcosa da aggiungere per onorarti. Ha stampato in te la sua immagine, perché l'immagine visibile presentasse al mondo il creatore invisibile, e ti ha posto in terra a fare le sue veci...”; PL 52,596-598.

[5] Lettere II, 331. "Ma cosa si intende per immagine e somiglianza di Dio?", si è chiesto il card. Ratzinger. Analizzando le fonti bibliche, ha spiegato che "L'uomo è immagine di Dio nel senso che partecipa alla immortalità di Dio, ζωή (zoé) e non solo βίος (bios). All'uomo dunque si propone una eterna comunione con l'amore di Dio che va oltre il tempo della vita terrena... La luce dell'amore brilla nelle persone sofferenti.  Esse, infatti sono più vicine al sacrificio di Cristo".

[6] A conclusione della famosa pagina “Anime, Anime!”; Sui passi di Don Orione, p.253.

[7] Lettere II, 463.

[8] Lettere II, p.227.

[9] Antoine de Saint-Exupery, Il piccolo principe.

[10] Lettere II, p.224.

[11] Tra l’altro, il servizio alla vita debole genera in chi aiuta preziosi frutti di umanizzazione frutto delle dinamiche di bisogno/gratuità, domanda/risposta, solitudine/comunione, bene ricevuto / bene dato.

[12]Il Cottolengo è una famiglia fondata sopra la fede che vive dei frutti di una carità inesauribile. Perciò in esso si vive allegramente, si prega, si lavora nella misura delle forze di ciascuno, si ama Dio e si ama e si serve Cristo nei poveri in santa e perfetta letizia perché essi non sono ospiti, non sono ricoverati: sono i padroni e noi altri siamo i loro servitori”; Scritti 74, 179.

[13] Il card. Elio Sgreccia ha presentato la panoramica dei modelli bioetici che giungono a logiche conseguenze di disumanizzazione e di morte: modello non-cognitivista (non si può conoscere verità e valori assoluti sull’uomo), modello pragmatico-procedurale (è etico ciò che che è secondo le procedure), pragmatico-utilitaristico (è etico ciò che è utile), socio-biologista (valori ed etica sono in evoluzione culturale), liberal-radicale (fondato sulla assoluta libertà soggettiva), etica senza verità… e senza Dio.

[14]Omnia vincit amor et nos cedamus amori” (L'amore vince tutto, anche noi cediamo all'amore) è una espressione molto laica, del poeta latino Virgilio, che parlava dell’amore alla poesia. Don Orione la citò più volte e la commentò, a suo modo, riferendola all’amore di Cristo e all’amore fraterno.

[15]Non è povera voce di un Uomo che non c’è / la nostra voce canta con un perché” (Maretta Campi).

[16] L’ateismo umanistico presenta Dio come il grande Concorrente dell’uomo per cui proclama: o Dio o l’uomo; o la grandezza di Dio o la grandezza dell’uomo. L’umanesimo cristiano invece, con Sant’Ireneo, afferma: “Gloria di Dio è l’uomo vivente. Vita dell’uomo è la visione di Dio” (Contro le eresie, 4,20,5-7).

[17]Dio è morto, Marx è morto e anche io non mi sento tanto bene”: Woody Allen.

[18] Discorso al Clero di Roma, 2 marzo 2006.

[19] Lettere I 53, 7.

[20] Facendo relazione di una riunione di un Circolo cattolico, Don Orione scrisse: “Si deliberò nel Signore di non stare più tristemente guardando, o fors’anco criticandoci tra noi, poiché la società invoca un rimedio ai suoi mali... Si parlò della urgente necessità e dovere di gettarci nel fuoco dei tempi nuovi, per l’amore di Gesù Cristo e del popolo, nonché del Paese,  poiché l’umanità ha oggi supremamente bisogno di ristorarsi nella fede, e di rivivere nella carità…”; Scritti 64, 161.

[21] Mt 5, 15. “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5, 16)

[22] Riunioni 130; Don Orione lo definì “uno spregiudicato, che non può vedere né vuole sapere niente di religione” (Parola IX, 425); poi divenne un generoso benefattore del Piccolo Cottolengo di Genova. Un padiglione dell’Ospedale “San Martino” di Genova è dedicato a lui.

[23] Don Orione raccontò la conversione di una anziana donna convertita al Piccolo Cottolengo di Claypole, la quale gli spiegò: "come posso non credere alla fede e alla religione della Suora che dorme per terra vicino al mio letto e che si leva 20-30 volte ogni notte per darmi da bere e per servirmi… più che fosse mia figlia? (...) Vedete? – concludeva Don Orione -, quella donna è stata spinta alla fede dalla carità sovrumana della suora"; Parola VIII, 195-196.

[24] Scritti 4, 280.

[25] Domenico Isola nacque a Genova l' 8 agosto 1884, da famiglia benestante. Il 10 dicembre 1933, iniziò la sua stretta collaborazione con Don Orione come direttore sanitario Piccolo Cottolengo di Genova-Paverano. Emersero le sue eccezionali qualità umane e professionali durante tutto l'arco dei trent' anni di servizio. Si andò distaccando da tutto, servendo e vivendo poveramente al Paverano fino a quando, il 12 maggio 1962, fu colpito da ictus cerebrale. La mano gli cade sul foglio dove stava stendendo la cartella clinica di una ricoverata giunta da poche ore. Morì alcuni giorni dopo, il 18 maggio. Egli, sempre umile, discreto, schivo di onori e di pubblici riconoscimenti, aveva chiesto di venir sepolto con il suo camice bianco di medico. La salma fu tumulata nella chiesa del Paverano.

[26] Lettera del 15.5.1935; Scritti 115, 196.

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