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" /> Messaggi Don Orione
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Autore: Flavio Peloso

Prendo in mano la documentazione dell’Archivio Don Orione (Via Etruria 6, ROMA) per mettere alcuni paletti di storia onde evitare voli fantastici su cose e persone sospinti dai racconti de “I Millenari, Via col vento in Vaticano”, con l’accredito di chi si fa passare come “bene informato”.
E’ un libro-spazzatura e ha avuto una larga diffusione proprio per il carattere scandalistico. In questo libro ci è finito anche Don Orione, non tra la spazzatura ma come una presunta vittima della spazzatura della Chiesa. Viene descritto come bersaglio di una azione ignobile contro il suo buon nome e contro la sua salute mediante l'inoculazione di una malattia "ignobile" durante la sua permanenza a Messina dopo il catastrofico terremoto del 28 dicembre 1908. Se qualcuno si chiede “Ma come sono andate effettivamente le cose a Messina per Don Orione?”, possono essere utili queste notizie.


TRA PETTEGOLEZZO E CALUNNIA


In un capitoletto intitolato “Cantonate della Chiesa verticale” si dicono delle assurdità riguardanti Don Orione, pur qualificato come “anima fortemente privilegiata dal Signore in vita”.
L’affermazione più incredibile è quella secondo cui Don Orione sarebbe morto infetto dalla sifilide, “alla larga da tutti, in stretta sorveglianza in una casa di suore in Sanremo”.

E’ risaputo e documentato che la partenza di Don Orione dalle nebbie invernali di Tortona verso il mite clima di Sanremo fu consigliata dai medici per dare sollievo a cuore e polmoni dopo due precedenti attacchi cardiaci.
In quell’ultimo anno di vita del Beato, vari dottori ed esami clinici d’ospedale indagarono sulle sue condizioni fisiche. Mai emerse il benché minimo indizio di quanto inventato dai Millenari. La “Villa S. Clotilde”, dove Don Orione si spense, era una Casa della Congregazione. Non era “alla larga da tutti”. Il Fondatore era circondato dall’amorevole cura e devozione di confratelli, suore ed amici laici. Morì “d’in piedi”, cioè al lavoro, come era nel suo desiderio, ricevendo molte persone, scrivendo decine e decine di lettere e rispondendo a molte telefonate. Dopo soli tre giorni di permanenza, alla sera del 12 marzo 1940, fu stroncato da un ultimo attacco cardiaco, fra le braccia di un chierico.

Viene ancora detto nel libro che “Benché tutti continuassero a stimarlo santo anche dopo la morte, gli ordini furono draconiani – e qui starebbe “la cantonata della Chiesa verticale”, secondo i Millenari - nel dissuadere chiunque accennasse al processo canonico circa l’eroicità delle virtù di don Orione...”. A smentire sono ancora i fatti. Il processo ordinario fu istruito nella diocesi di Tortona ed iniziò appena permesso dalle norme ecclesiastiche, cioè solo sette anni dopo la morte del Beato. Fu celebrato, come leggiamo nella intestazione degli atti processuali, “a die 17 ianuarii 1947 ad diem 7 februarii1951”.

Di grande effetto romanzesco, ma non vera, è anche la notizia secondo cui “Un barbiere cerusico messinese in punto di morte chiese la presenza di un sacerdote e di due testimoni per ristabilire la verità, nascosta dalla calunnia: essendo barbiere del convitto degli Orionini in Messina, colà accorsi a seguito del terremoto 1908, spesso aveva servito di barba e capelli anche il fondatore don Orione. Istigato e corrotto da un congregato, (il barbiere) accettò di intaccare, come per caso la sua nuca e, fingendo di disinfettarla, vi applicò il contenuto della boccetta ricevuta, che soltanto dopo avrebbe saputo trattavasi di pus luetico”.
La descrizione così circostanziata sarà parsa a non pochi lettori avvincente e convincente. Ma i fatti non stanno così. A base c’è un piccolo episodio – totalmente distorto dai Millenari - raccontato più volte da Don Orione stesso e del tutto documentato durante il processo di beatificazione.
Don Orione, all’epoca del fatto (estate 1910), si trovava a Messina come Vicario episcopale con pieni poteri conferitigli direttamente dal Papa Pio X. Incontrò non poche ostilità in chi lo vedeva come “commissario del Vaticano” ed ostacolo ad interessi non onesti. Il cerusico, Tommaso Pasqua, era il barbiere della Curia arcivescovile di Messina e da lui si serviva anche don Orione, che non aveva né un proprio convitto né confratelli a Messina.
Un giorno, dopo essersi fatto radere, Don Orione avvertì “che gli erano stati praticati alcuni piccoli tagli, per i quali egli sentì subito tutto il viso come infuocato”. Uscito dal barbiere, manifestò a Don Paolo Albera il suo timore di essere stato “avvelenato”. Ben presto, infatti, sul volto gli comparvero delle pustole.
Don Albera, poi divenuto vescovo, ebbe la stessa disavventura, come veniamo a sapere da una lettera di Don Orione a Don Sterpi del 19.4.1931: “Egli, che ebbe pure il volto infettato nel triste caso che mi capitò a Messina, perché andò sotto a farsi la barba subito dopo di me, (non così grave come me però, perché il rasojo era già stato pulito sulla mia faccia); ricordava benissimo la cosa”.
Non avendo alcun confratello a Messina, fece venire da Reggio Calabria don Felice Cribellati, poi divenuto vescovo. Dopo qualche giorno giunse anche Don Carlo Sterpi. Entrambi videro Don Orione disinfettarsi con in mano una boccetta di alcool e un po’ di bambagia. Anche a loro il Fondatore raccontò che “dal barbiere gli era stato inoculata una infezione”.
Ma l’episodio si risolvette rapidamente. Sette od otto giorni dopo, Don Orione si ripresentò al suo ufficio in Curia ”con la barba nuovamente ben rasata, senza alcunissima traccia delle piaghe e delle pustole, con il viso fresco e bianco, come prima del fatto”. Trovò però una sorpresa: sul suo tavolo di ufficio c’era un libro aperto al capitolo “Come si guarisce dalla sifilide”. Questo elemento intimidatorio fece argomentare, 20 anni più tardi a persone, o troppo devote o troppo maligne, che l’infezione patita fosse dovuta alla sifilide. Ma ciò non poteva essere ed è presto detto il perché.

Quando il presidente del Tribunale Apostolico Messinese, durante il processo di beatificazione di Don Orione, chiese il parere al Primario della Clinica dermosifilopatica dell’Università di Messina sulla possibilità che fosse avvenuta una inoculazione luetica, ebbe una risposta negativa, perché, “in caso di inoculazione, devono passare un 15-20 giorni prima che si manifestino gli effetti del contagio, i cui segni permangono fino a 2 o 3 anni dopo”. Nel caso di Don Orione, invece, l’infiammazione apparve subito e, poi, tutto si risolvette in meno di una decina di giorni. “Probabilmente si sarà trattato di una semplice infezione da germi piogeni comuni (...) che guariscono rapidamente in seguito a semplici cure antisettiche locali”, concluse il medesimo Primario di Messina.
Ancora più clinicamente assurdo è pensare che la sifilide si sia manifestata a… 30 anni di distanza. ”Ormai stremato, Don Orione cominciava ad avvertire fastidiosi effetti in tutto il suo corpo minuto – riferiscono con piglio patetico-storico i Millenari -. Lo persuasero a farsi visitare, il responso fu scioccante: il mal venereo, la sifilide”.
Ricordiamo che la inoculazione del virus sarebbe avvenuta nell’estate del 1910, e Don Orione morì trent’anni dopo, nel marzo 1940, dopo una vita sorprendentemente attiva, dopo aver fondato decine e decine di opere caritative e aver varcato due volte l’Oceano in viaggi missionari nell’America Latina. La lontananza tra i due avvenimenti messi in relazione svela ignoranza scientifica e malignità di chi scrive affermando un rapporto di causa ed effetto.

Un’ultima parola sul povero Tommaso Pasqua, il cerusico, morto l’11.5.1953, e qualificato come “un buon cristiano” da molti testimoni, compreso il beato Annibale di Francia. Don Orione ebbe a riferire che quel barbiere si presentò a lui per chiedergli scusa e gli diede del denaro con il quale era stato pagato per quell’atto intimidatorio. Non fu dunque, una rivelazione “in punto di morte… alla presenza di un sacerdote e di due testimoni”, ma un atto spontaneo di pentimento del barbiere per essersi prestato ad un gioco crudele... pur non trattandosi di sifilide.

Alla luce di quanto detto e documentato, va riferito al libro sopra citato quanto in esso è scritto a pag. 49: “Usare spregiudicatamente oltre misura tutto ciò che serve al proprio interesse, manipolando ad arte le bifide espressioni e le sottili calunnie, per Giambattista Vico è suprema astuzia, sottratta abilmente al gioco della Provvidenza per consegnarla a quello diabolico”. Summarium ex processu… soprattutto p.189-225.

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