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Messaggi Don Orione
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Capitolo IV: Le virtù.

VITA DI DON CARLO STERPI

di Don Domenico Sparpaglione

 

INDICE

Capitolo I:  Sintesi cronologica

Capitolo II:  Attività morale

Capitolo III:  Fraternità con don Orione

Capitolo IV:  Le virtù

Capitolo V:  L’appuntamento con la Madre del Cielo

 

CAPITOLO  QUARTO

LE VIRTÙ

 

Amore al sacrificio

Il poco dire si è detto sull’attività, sui metodi educativi, sulla predilezione di don Sterpi per i chierici, sull’assoluta dedizione di sé al Fondatore, mette in evidenza la sua figura di sacerdote pio, umile, paziente, caritatevole, che ora ci disponiamo a illuminare per quell’insieme di doti spirituali che costituiscono il substrato delle sue opere e tramandano il suo nome in venerazione.

Don Sterpi incarna mirabilmente il figlio della Divina Provvidenza che ama il sacrificio e piega la schiena per dividere la fatica materiale con l’operaio, almeno finché le forze lo sorreggono, convinto che il decoro sacerdotale non ne scapita, ma si accresce: alla condizione, beninteso, di non rinunciare mai alla disciplina tradizionale rappresentata dal santo abito, da infangare nella fatica anziché sostituire con delle tute, evitando così i pericoli di quel modernismo che ha dato e continuerà a dare di sé prove desolanti.

Don Orione concordava bene con questi criteri quando affermava la sua decisa intenzione di mantenere nell’abito della Chiesa i suoi chierici lavoratori.

L’ideale di “sfacchinaggio” esplicitamente proposto da don Orione, don Sterpi lo attuava anche in senso proprio con l’impiego delle braccia. Lo ricordo in occasione di una passeggiata dei convittori di Sanremo che erano attesi a Tortona, un lontano mese di maggio del 1913, ma che poi si perdettero a mezza strada. Don Sterpi alla vigilia era tutto un fremito di energia e di movimento nel trasformare il cortile in sala da pranzo, curando la collocazione di un ampio velario che doveva proteggerle dal sole, dando il bianco di sua mano alla tetra muraglia contro cui s’appoggiava la statua della Madonna alta su di un piedistallo costituito dal pozzo.

All’alba della festa tanto attesa cominciò a cadere una pioggia fitta e gelida che contribuì a disperdere le superstiti velleità dei “sanremesi”, incontro ai quali, tuttavia, sperando fino all’ultimo, don Sterpi spedì una staffetta di ardimentosi ciclisti che giunti a Novi fecero dietro front e rientrarono al Paterno verso mezzogiorno con due dita di fango sulla schiena. Il pranzo fu consumato melanconicamente in refettorio e non bastarono gli eccezionali manicaretti a compensarci della delusione per il mancato arrivo degli amici di Sanremo. Ricordo l’episodio non perché sia il più significativo, ma perché puntualizza bene l’alacrità di don Sterpi.

Tanto più rimarchevole è questo suo amore al sacrificio se pensiamo che l’ambiente tipico  nel quale egli visse fu quasi sempre l’umile stanzetta della direzione. L’artista che volesse rendere in sintesi visiva la vita di don Sterpi con tutta quella somma di lavoro sviluppato ai fianchi di don Orione, dovrebbe necessariamente rappresentarcelo confinato in uno sgabuzzino poverissimo quanto ad arredamenti, tra scaffaletti carichi di documenti e di fascicoli, e intento a ordinare, a scrivere, ad attuare le grandi iniziative del Fondatore. La sua esistenza trascorsa in gran parte nel chiuso di uno stanzino, sempre il buco più piccolo della casa, a Tortona quand’era direttore del Paterno e Vicario e poi Successore di don Orione, a Venezia quando si occupava della Tipografia Emiliana senza cessare di attendere ai gravosi incarichi di Vicario della Piccola Opera

Se non l’avessero spinto una volta in Albania ed in Polonia a visitarvi le locali istituzioni, egli ben poco avrebbe contribuito all’incremento delle ferrovie e delle linee aeree internazionali.

Si limitò a tessere la sua trama di bene fra i centri della Congregazione quand’era richiesta la sua presenza. In questo senso anch’egli percorse molta strada in treno, in barroccio, in automobile, e a piedi logorando, come don Orione, le sue scarpe in un incessante lavoro di spola da un’opera buona da realizzare a un’altra da visitare, portando di frequente il suo sorriso, la sua pace, il suo conforto ai sofferenti in attesa e ai suoi figliuoli spirituali.

Ma un modesto scrittoio fu il suo vero campo di battaglia per le interminabili e rinnovantesi pratiche da smaltire, non già con l’indifferente noia di un burocrate ma con l’assillo e spesso con l’angoscia delle decisioni gravide di responsabilità e senza mai concedersi neppure il ristoro di una passeggiata vespertina. Non sono le scorribande frenetiche a muovere le forze del bene.

Dalla sua stanzuccia don Sterpi sviluppa un’attività portentosa il cui rendimento a vantaggio delle anime è proporzionato all’intensità della sua vita interiore di fede, di umiltà, di amore a Dio e agli uomini.

 

Ordine esemplare

Arriva a tutto, secondo un metodo a cui si serba fedele ad ogni costo, fondato sull’ordine e sulla risoluta volontà di non decampare mai minimamente dal suo proposito, facendo la dovuta stima delle piccole cose, senza cadere nelle grettezze, anzi con una visione ampia e serrata dei propri doveri.

Egli non lascia una pratica inevasa, una lettera senza risposta, rimandando al giorno dopo solo quello che ha bisogno del consiglio della notte e della consultazione della preghiera ai piedi del Santo Tabernacolo. Anche si trattasse di una semplice cartolina di auguri dell’ultimo suo allievo p beneficato, la risposta di don Sterpi è sollecita, affettuosa, impescrittibile, direi fatale.

Col suo esempio illustra la verità dell’aforisma “ Serva ordinem et ordo servabit te!”

Con la fedeltà a un orario, con un sistema di vita che distribuisce gerarchicamente le varie incombebze della giornata, don Sterpi ha risolto il ponderoso problema di rendere moltissimo in tempo breve come, se ci si passa il paragone, un abile turista sistema in un sacco da montagna tutto il necessario e qualche cosa di più sfruttando sapientemente lo spazio che ha a disposizione.

Di un naturale schivo e modesto egli poco parlava e molto operava. Rarissimi i suoi discorsi. Anche le prediche limitate al tempo opportuno. Non diciamo poi i pistolotti nelle agapi fraterne che di solito accendono l’estro dei faciloni. Neppure le esortazioni finali ai pellegrini della Guardia egli evocava a sé. E sarebbe stato tanto lusinghiero all’amor proprio venir fuori con la patacca giustificativa di un dovere da compiere in qualità di superiore.

Don Sterpi era tutt’altro che un accentratore. Preferiva delegare ad altri il compito di far bella figura a così buon mercato ed evitava di mettersi in vista. Unicuique suum. Quando era costretto se la cavava egregiamente anche come parlatore, o meglio come predicatore, perché aveva dalla sua la convinzione, la proprietà del linguaggio, una comunicativa calma e vigorosa e un istintivo orrore per tutto ciò che sa di manierato, di retorico, quindi di falso.

Ma le opere da lui compiute ben valgono i discorsi non pronunciati: Santa Chiara, Mornico, San Romolo, Convitto Paterno, Artigianelli di Venezia, Berna di Mestre, Santuario della Guardia, Fumo, Istituto Teologico, Casa Immacolata di Bra, Istituto delle Piccole Suore Missionarie, Tipografia San Giuseppe, Tipografia Emiliana, Ameno, i Piccoli Cottolengo di Genova e di Milano, Villa Charitas, il Piccolo Cottolengo Tortonese, il Piccolo Cottolengo Sanremese, Castel Burio, l’Orfanotrofio di Gavazzana e tante altre istituzioni, già ricordate o da accennarvi in seguito, sono legate al suo nome o per averle egli iniziate, o per averle dirette, o per averle fondate.

E questo non è che la superficie, giacché il meglio della sua attività è quella d’ordine morale, nella formazione dei chierici e dei sacerdoti, nell’educazione della gioventù, nelle relazioni con gli Amici e coi Benefattori, nell’assistenza diretta e indiretta ai ricoverati sotto le grandi ali della Provvidenza, nella forza del suo esempio, vera scuola di carità, di zelo, di illibato candore d’animo, di purezza sacerdotale, di umiltà.

 

Pietà sincera e operosa

L’ordine esterno che caratterizza l’operosità di don Sterpi è il riflesso della sua pietà, la virtù eminentemente sacerdotale.

Abbiamo già rilevato come egli sapesse trasfonderla nel cuore dei giovani senza appesantirne l’involucro esteriore.

Quell’acuto conoscitore di anime che fu il nostro mons. Felice Cribellati, rievocando il suo primo contatto con l’ambiente della congregazione, a Mornico Losana il giorno del Corpus Domini del 1897, diceva che l’avevano colpito soprattutto il dinamismo di don Orione che organizzava la processione, e la devozione di don Sterpi che procedeva raccolto in preghiera e solennità di canto liturgico. Non che ci fosse antitesi tra i due aspetti. Anche don Sterpi ebbe una sua dinamica nel bene, come don Orione arse di vita interiore; ma nel primo lo spirito di pietà era nota dominante e inconfondibile.

Essa appariva continuamente anche all’esterno, dando significato a tutti i suoi atti. Il suo contegno spirava devozione senza mai stilizzarsi in rigidezze formali. Era una pietà soda, nutrita di virtù, di comprensione del prossimo, discreta e punto pesante agli altri. Egli chiedeva molto a sé, in sacrificio, in preghiera e in pratiche di culto, secondo lo spirito della congregazione. Quanto agli altri preferiva esortare piuttosto che rimbrottare e sopattutto non si rendeva insopportabile con interventi malaccorti, atti più a irritare che a persuadere, specialmente in ciò che riguardava l’osservanza regolare.

In questa manifestazione di pietà umile, discreta, comprensiva, era maestro don Orione; e don Sterpi ne seguiva mirabilmente gli esempi. La sodezza della virtù era indice della robusta tempra della sua pietà che si rifletteva nei pensieri, ispirava gli ideali, traboccava nelle azioni e insaporava di sé tutta la vita. L’andatura, il portamento erano di un uomo che prega anche fuori di chiesa, dominato sempre dal pensiero di Dio. Portava con dignità il santo abito, non si permetteva atteggiamenti rilassati, non teneva mai le gambe a cavalcioni; correva se c’era bisogno, ma senza compromettere il proprio decoro esteriore.

Le sue parole erano improntate a gravità e se egli qualche volta amava scherzare con i suoi confratelli o con i giovani, trattava argomenti ingenui e semplici alla portata dei più piccoli. Chi ha mai sentito don Sterpi, sempre sorridente quando non era in gioco una severità imposta dal dovere, prorompere in una risata fragorosa? Se nel suo ambiente scoppiava l’ilarità egli vi prendeva parte con un riso sorgivo, spontaneo, che si stampava sul volto ma non gli scuoteva affatto la persona. Egli però direttamente non la provocava mai con barzellette e di rado con argute osservazioni.

Questione anche di temperamento, d’accordo: ma indubbiamente controllo e vigilanza su se stesso.

Pietà integrale quella di don Sterpi: di sacerdote, di religioso, di buon cristiano, poiché l’ascesa in gradi di perfezione implica non l’annullamento dei gradi che precedono ma il loro potenziamento. Così la buona educazione diventa un’esigenza dello spirito di pietà, come la docilità nell’ubbidire a ogni autorità sia religiosa che civile, la semplicità nel riconoscere i meriti altrui. La pietà vera e profonda ha spazzato via dal suo cuore ogni contegno di sussiego o di odiosa sufficienza con cui talora i grandi, o che tali si credono, perché costituiti in carica, guardano il prossimo.

Don Sterpi sapeva benissimo riflettere che è miglior saggezza curare la crescita in noi dell’uomo, del cristiano, del religioso, che non cercare dei palliativi fuori di noi. Ma questa lezione l’apprende solo chi vive la vera pietà che importa l’annegamento di noi in Dio.

Don Sterpi era l’uomo di Dio. Lo si vedeva specialmente in chiesa. Compiva le sacre funzioni consapevole della propria dignità di sacerdote, con voce chiara, vibrante di fede e di umiltà, con gesto lento, ieratico, appropriato. La sua Messa riproduceva la Prima Messa, commossa e devota, e durava almeno mezz’ora, preceduta abitualmente dalla preghiera e dalla meditazione mattutina e seguita dal ringraziamento che spesso si protendeva nella recita del Divino Ufficio ai piedi dell’Altare. Socchiusi i grandi occhi nel raccoglimento, egli veramente parlava con Dio.

La stessa devota gravità egli esprimeva nell’intonare le pubbliche preghiere. Chi ebbe la sorte di parteciparvi non dimenticherà più le novene dell’Immacolata e del Natale da lui guidate con devozione così toccante, in quell’atmosfera soffusa d’incenso, da suscitare in tutti slanci di fervore e di entusiasmo.

Due furono le sue devozioni essenziali: l’Eucaristia e la Madonna, intese non solo come nutrimento della propria anima, ma come un impegno di apostolato.

Il sensus Christi si affermava nelle lunghe ore vegliate ai piedi del Santo Tabernacolo e traspariva da tutta la sua condotta che rivelava la costante attitudine mentale alla Divina Presenza ispiratrice di tutte le sue azioni.

La devozione eucaristica si integrava con quella a Gesù Crocifisso sentita particolarmente come amore alle tribolazioni (i sette F della Divina Provvidenza), al sacrificio di sé per la salvezza delle anime nell’esercizio della carità.

Della Madonna parlava e scriveva come soltanto può un tenero figlio convinto dell’affetto di sua madre. Senza troppo sillogizzare sui privilegi e sulle grandezze di Maria, egli la considerava in pratica sempre viva nel proprio cuore e tutto ciò che avveniva intorno a lui e dentro di lui lo riferiva, con voto spontaneo della confidenza, aqlla santa Madonna che concedeva le grazie, le sospendeva o le commutava in altro bene.

Quando a Sanremo quel giovane cadde dal terzo piano, don Sterpi fece tre voti alla Madonna e poi interpretò il fatto della perfetta guarigione come una Sua grazia specialissima.

Con ingenuità francescana lui e don Orione trattava della Madonna come se l’avessero veduta e la sentissero sempre ai loro fianchi testimone di tutto quello che si svolgeva nella Piccola Opera.

La statuetta della Madonna troneggiava sul suo scrittoio e a Lei don Sterpi affidava i suoi pensieri, i suoi crucci, con filiale abbandono. Don Orione a sua volta dall’America gli scriveva raccontandogli cose straordinarie con la semplicità e con la fede con cui tante volte tra di loro si animavano alla confidenza nella Celeste Regina.

Un trono don Sterpi eresse alla Madonna nel suo cuore ardente di puro e santo affetto; ma la Provvidenza dispose che un altro visibile monumento sorgesse dal suo insonne travaglio: il Santuario della Guardia a Tortona, dove egli riposa dopo aver sollecitato da Maria SS.ma la grazia di entrare in Paradiso nella ricorrenza della sua Presentazione al Tempio.

Tra i Santi, oltre il particolare Protettore San Carlo, don Sterpi venerò di speciale devozione San Giuseppe, a ciò indotto, se ce n’era bisogno, dall’esempio di don Orione. Le forme di queste devozioni fioriscono dalla profondità del sentimento che le ispira. Non si tratta di devozioni intellettuali, dovute cioè a un gusto di sapere, ma affettive ed effettive: di cuore e di buona volontà.

Don Sterpi non lasciò dei pensieri peregrini sull’Eucaristia, sulla Madonna, sui Santi, ma a nessuno egli è secondo nel derivare da quelle immagini di perfezione il programma di tutta la sua vita.

 

Amore alla Chiesa

Da autentico interprete di don Orione egli nutriva in sé e alimentava negli altri, col suo esempio, l’amore al Papa. Nell’amore sl Papa ovviamente è compreso il sentimento di venerazione per tutta la gerarchia ecclesiastica.

Non poteva amare i poverelli di Cristo senza un sincero e profondo attacca mento alla Chiesa e quindi al Capo visibile del Corpo Mistico verso il quale si protendevano tutte le sue aspirazioni. La sua presenza tra i vari gruppi di ricoverati faceva rivivere l’antica tradizione di carità, quel senso dell’unione fraterna che trascende gli schemi d’un puro e semplice umanitarismo sociale per immergersi nella soprannaturalità della Fede.

Valga qualche esempio scelto tra le esperienze personali.

Stavo intrattenendomi con lui la mattina del Corpus Domini  credo dell’anno 1936, quando entra il chierico al quale era temporaneamente demandato l’incarico della disciplina e con tono di critica comunica la disposizione impartita dall’Autorità diocesana circa l’ordine da tenere nella processione, per ridurre la sfilata troppo lunga del nostro personale religioso. Don Sterpi ci offrì un saggio di obbedienza pronta e lieta. Mandò a chiamare subito il sacerdote che lo coadiuvava al Paterno e, con parole da cui traspariva un senso di docile amore per l’autorità, si assicurò che tutto fosse eseguito secondo la volontà del Capitolo della Cattedrale.

Ho pensato in quel momento al chierico Sterpi che nel seminario diocesano era tanto stimato da essere preposto all’assistenza dei suoi più giovani compagni e m’è parso di veder sbocciare quella dimostrazione di ossequio dell’inalterato spirito di venerazione che dal lontano passato vibrava i suoi bagliori sul presente.

Nessuno può dire d’aver mai sentito don Sterpi muovere critiche all’autorità religiosa.

Umanamente parlando occasioni non gli sarebbero mancate, perché questo è nell’ordine naturale delle cose.

Nelle settimane immediatamente successive alla morte di don Orione era venuto a Tortona il salesiano don Antonio Cojazzi a chiedere un autografo da pubblicare sulla sua fiorente “Rivista dei Giovani”. Don Sterpi si adoperò in tutti i modi per accontentarlo e poi lo volle accompagnare personalmente fino alla porta d’uscita dove attendeva una macchina messa a sua disposizione.

Don Cojazzi, che era venuto per trovare degli elementi di santità in don Orione, fu sorpreso e meravigliato di trovarne, e così vivi, anche in don Sterpi, per cui, tutto pieno di commozione e di gaudio spirituale, prima di uscire si curvò dinanzi a lui e gli impose di dargli una bella benedizione.

Macché, non ci fu verso. Dovette egli darla a don Sterpi. Ma siccome questo, a suo giudizio, era un po’ troppo, don Cojazzi abbrancò la destra del piccolo sacerdote e piegandosi in ginocchio se la fece battere tre volte sul capo scoperto dicendo che doveva essere almeno benedetto per forza, se no non sarebbe partito da Tortona.

Già vecchio cadente e bisognoso di assistenza, nell’autunno 1950, si portava per l’ultima volta a Roma per assistere, il primo novembre, alla proclamazione del dogma dell’Assunta e lucrare il Giubileo e per essere ricevuto, il 21 novembre, in speciale udienza dal Santo Padre, che si era degnato di dargli una preziosa testimonianza di affetto in occasione delle sue Nozze d’Oro sacerdotali, il 13 giugno 1947.

Ma non anticipiamo. Ci basta aver accennato sommariamente alle forme in cui si esplicava la profonda pietà di don Sterpi, dalla quale s’irradia una serie di virtù e di perfezione religiosa.

 

Umiltà

Un’altra nota che domina nell’armoniosa tessitura della vita spirituale di don Sterpi è senza dubbio, per unanime attestazione di quanti lo conobbero, la virtù dell’umiltà nella quale egli si raccolse per vivere tutto di Dio e della Congregazione, realizzando costantemente il programma appreso dall’Imitazione di Cristo “Ama nesciri et pro nihilo reputari”

Egli era ben noto fra noi, ma non sufficientemente al lavoro svolto e ai meriti che si veniva acquistando. Tanta luce che si sprigionava dal suo zelo si rifletteva per forza di cose su don Orione. Augent obscura nitorem. L’ombra mette in maggior risalto la luce. È il pensiero di Sant’Agostino.

Don Orione è costretto a uscire dall’ombra, non certo col cuore sempre teso alla ricerca del nascondimento, ma in conseguenza della sua responsabilità di fondatore e di guida, mentre don Sterpi, secondando le circostanze, può fare del nascondimento il programma principale della sua vita.

Mons. Melchiori, parlando di lui in occasione dei funerali, mise a fuoco mirabilmente la sua virtù peculiare, divenuta una cosa sola con tutto il suo essere e persino con la sua figura fisica: l’umiltà.

“Tutto in lui era inteso al nascondimento di sé, perché ogni cosa riuscisse unicamente a gloria di Dio. Su questo fondamento costruì l’edificio della sua perfezione e quell’altro grande edificio della Congregazione, contribuendo, come nessuno, accanto al Fondatore, agli sviluppi della Piccola Opera.. Don Orione lanciava i grandi piani di bene, ed era spesso don Sterpi che con la sua tenacia li traduceva poi in realtà, sempre però intendendo il suo apporto quale umilissimo servizio. Umiltà schietta la sua, sentita e operosa, attraverso quel lavoro senza sosta che, proprio perché svolto in occasionale spirito di umiltà, è statp straordinariamente efficace, fiorendo in tanta mole di bene in Patria e all’Estero. (Bollettino della Piccola Opera – Dicembre 1951)

Occasioni di apprendere questa fondamentale virtù egli ne ebbe da quando lasciò il Seminario per mettersi al seguito di un suo compagno un poco più innanzi negli anni ma, per allora, non così stimato dai Superiori come lo era lui. Non è il caso di sottacere che don Orione era dato un po’ per matto e Mons. Bandi lo lasciava libero di svolgere l’apostolato tra la gioventù di Tortona, ma non gli affidava in seminario mansioni disciplinari sui chierici, ciò che invece toccava a don Sterpi.

Eppure don Sterpi comprese subito che don Orione era un santo animato da spirito di fede, e cominciò a scomparire dietro di lui accontentandosi di questa sua parte per il lungo periodo vissuto al suo fianco.

Non si obbedisce senza umiltà. Don Sterpi ha saputo assoggettarsi senza esitazioni, e quando sarebbe stato naturale, se non virtuoso, mettersi vicino al Fondatore per dividere qualche cosa dei riconoscimenti che a lui e alle sue opere derivavano dal suo lavoro segreto, costante, efficacissimo, egli preferì tenersi appartato.

Si potrebbe pensare che la dipendenza da don Orione non costituiva un atto eroico di umiltà data la statura morale del Fondatore. Ebbene, ecco due fatti molto significativi in proposito riferiti da un giovane parroco appartenente alla nostra congregazione.

“Di don Sterpi – egli scrive – non potrò mai dimenticare la profonda umiltà con cui per più di un anno volle servirsi del mio ministero per la confessione settimanale. È superfluo dire che la sincera fisionomia spirituale del penitente il quale con tutta naturalezza e senza alcuna trepidazione si degnava chiamare coll’alto nome di Padre Spirituale il povero sottoscritto (secondo la formula usuale con cui si completa l’accusa delle mancanze), era motivo di non poco imbarazzo per me. Imbarazzo che tuttavia si correggeva facilmente in un sereno adempimento dell’ufficio, dato che l’umiltà di don Sterpi proprio per la sua sincerità anziché deprimere ispirava confidenza.

“L’umiltà di don Sterpi la potei riscontrare anche nel rispetto che, sempre con la solita naturalezza e semplicità, professava per il suo parroco, come diceva lui. Negli ultimi anni, finché la salute glielo permise, interveniva al Vespro in parrocchia, ascoltando nel coro di San Michele la spiegazione del Catechismo agli adulti e compiacendosi della frequenza dei chierichetti che venivano a cantare il Vespro. Desiderava che nel giro per la  benedizione delle case, il parroco passasse anche nella sua stanza ed assisteva con raccoglimento e fervore al rito”.

Senza esercizio, cioè senza umiliazioni, la virtù dell’umiltà non sussiste e le rivincite dell’amor proprio sono inevitabili e fragorose. Tanta esperienza di umiltà accumulò don Sterpi nella sua vita da dare l’impressione di non doversi troppo impegnare a respingere le tentazioni della vanità. L’umiltà era divenuta, dopo tante vittorie riportate sull’amor proprio, un’inclinazione naturale.

Che il suo nome figurasse qualche volta sui giornali e sulle riviste non gli dava né gioia né preoccupazione. ( E pensare che c’è della brava gente che per un affermazione personale del genere prende a pretesto addirittura le opere di carità. A parte gli squilibrati che arrivano al delitto profittando della criminosa condiscendenza di certa stampa). Pareva refrattario ai pericoli dell’ambizione. Egli, per esempio, non provava l’impulso generoso di strappare le proprie fotografie appese alle pareti delle nostre case, semplicemente perché non era tentato di orgoglio davanti ad esse e mirando a una gloria altrimenti reale (perché soprannaturale), non accordava la minima considerazione a qualsiasi manifestazione della gloriuzza di questo mondo. È un bel dire. Anche Dante parlava molto bene del “mondan rumore”, ma poi in pratica ne provava il fascino.

Se don Sterpi per naturali disposizioni era indotto a tenersi fuori dalle contese dell’amor proprio, certo per arrivare a una così invidiabile tranquillità di spirito dovette usare su di sé una vigile e attenta disciplina.

Siccome questo non è un trattato di ascetica ma una biografia, non indugeremo a distinguere nell’animo di don Sterpi i diversi gradi di umiltà. Detto che il suo sforzo di volontà, corrisposto dai risultati a noi noti, fu di possederla saldamente cogitatione, verbo et opere, non possiamo esimerci dal considerarla nei mirabili frutti che produceva.

 

Purezza

Innanzi tutto la purezza ornamento della sua vita di sacerdote per cui egli ignorava fin l’ombra del male. L’angelica virtù si esprimeva nella delicatezza del tratto: egli non accarezzava i giovani, non li prendeva neppure per mano, ma se ne cattivava l’affetto e la piena fiducia col fascino che appartiene ai mondi di cuore.

Evitando di toccare pubblicamente quegli argomenti che, per salvare un’anima, potrebbero esporne altre al sottile veleno di certi rimedi da applicarsi con scrupoloso riguardo ad personam, sapeva far amare la castità e, dove occorresse, stroncare il vizio.

Spirava da tutto il suo essere e il suo contegno il candore del giglio che egli sempre custodì immacolato e fragrante, serbando un animo di fanciullo nell’età adulta.

Un segno della sua delicatezza in materia. Il pomeriggio dell’otto novembre 1944 egli era partito in autopulmann da Milano, diretto a Tortona; ma a Pavia dovette sostare e anziché pernottare in qualche convento o albergo, spinto dalla brama di guadagnare tempo, volle proseguire in compagnia di un giovane sacerdote, fidando di trovare un treno al di là del Po. Traversarono il Ticino su di una barca, poi a piedi si portarono fino alla sponda sinistra del Po e nella densa oscurità sopravvenuta, si diedero a perlustrare la riva avanti e indietro per individuare la passerella di cui conoscevano l’esistenza ma non l’ubicazione. Si spinsero anche fino allo strapiombo del ponte crollato sotto i bombardamenti, ma vedendo sotto di sé la massa d’acqua che gorgogliava fra tante rovine, non insistettero e si affrettarono a tornare sui loro passi. Intanto non cessavano di recitare il santo Rosario, riprendendolo per più di una volta daccapo. Finalmente, su indicazione di un uomo che in piena notte transitava da quei paraggi, poterono trovare la passerella e varcare il fiume. Poco lontano dalla sponda destra un treno merci era in procinto di partire per Voghera ed essi vi montarono; ma a Bressana il treno sostò a lungo.

Don Sterpi rimase rannicchiato sul pavimento di un carrozzone continuando a pregare. In quel vagone c’erano parecchi soldati: chi dormiva, chi fumava, i più chiacchieravano. Il freddo e la stanchezza diventavano insopportabili e don Sterpi solo nella speranza di riprendere quanto prima il suo viaggio. Eppure dopo qualche tempo accennò al suo compagno di scendere e di abbandonare la tradotta.

Perché? Unicamente perché i discorsi di quei militai cominciavano a scivolare su argomenti lascivi. Don Sterpi, vista l’inefficienza di un suo richiamo ammonitore, ritenne la sua presenza inopportuna in un ambiente dove la bella virtù veniva compromessa. E fu irremovibile nella decisione. Solo dopo qualche ora di inutili ricerche d’un altro mezzo di trasporto, ostacolato dalla pioggia e costellato anche di improperi ricevuti nell’atto di bussare a qualche porta del vicino abitato di Bressana, egli s’indusse a tornare alla tradotta che in quel momento riprendeva il suo viaggio verso Voghera.

 

Semplicità

La semplicità rivestiva di sé un’anima tanto ossigenata di purezza. Si poteva ripetere di don Sterpi l’elogio evangelico che il Card. La Fontaine fece di un umile frate canossiano a Venezia: “Ecce verus israelita in quo dolus non est”.

Non supponeva il male negli altri, giudicando al metro della propria virtù. O almeno bisognava che qualche gherminella lo avesse in precedenza reso edotto sulle qualità morali delle persone con cui aveva da trattare.

La sua semplicità infatti non sconfinava nella dabbenaggine, anzi si accoppiava con la prudenza tanto raccomandata da Gesù e intesa come avvedutezza. Così un pomeriggio domenicale passando in automobile presso l’Arena di Milano, dove si era svolta una partita di calcio, e osservando le adiacenze affollatissime, egli si rivolse al suo autista, un sacerdote molto navigato in materia, e domandò il perché di tutta quella gente, con tanta semplicità che fece sorridere il suo informatore.

La virtù della semplicità spiega anche la sua condotta scevra di qualsiasi formalismo e poco proclive alla burocrazia che lo colse di sorpresa quando anch’egli, in forza di statuti e di costituzioni, dovette adattarvisi. Egli certo avrebbe preferito, anche dopo la divisione in province e la nomina dei consiglieri tra i quali andò distribuita la responsabilità del governo di congregazione, seguire la prassi, a cui si era abituato, di risolvere i rapporti tra i confratelli in maniera del tutto famigliare. Intendiamoci. Non avanzò riserve né esplicite né sottintese e integralmente, lietamente, si adeguò alle nuove disposizioni, che sono poi quelle del Diritto Canonico. Il trapasso dalle consuetudini all’ordine stabilito dal Diritto Canonico si operò quindi senza nessuna scossa, proprio toccando a lui per primo il compito di attuarlo.

Così il suo spirito semplice non gli consentiva di assumere atteggiamenti studiati, sia pure a fin di bene, com’è di coloro che forzano la natura per piegarla a espressioni non del tutto spontanee, anzi combinate per la circostanza. Il gran padre Dante ha espresso in versi famosi la perentorietà e l’immediatezza dei sentimenti nel “più veraci”. Costoro, senza possibilità di infingimenti, sorridono e si fanno seri secondo l’intima disposizione dell’animo:

Ché riso e pianto son così seguaci

Alla passion da cui ciascun si spiccia

Che men seguon voler nei più veraci.

(Purg.)

 

Don Sterpi non era nato per fare il diplomatico e non fece studi speciali per diventarlo. L’approvazione del bene veniva col sorriso delle sue labbra, e la disapprovazione del male gli faceva aggrottare la fronte e incupire lo sguardo, dinanzi a chiunque, senza eccezione di persone e senza parzialità.

Tra di noi resterà vivo il ricordo del Prof. Everardo Dal Fiume, il chimico di cui si parla nella biografia di don Orione. (Il Servo di Dio don Luigi Orione – p.236-260). Guidato da un senso di rettitudine a prova di bomba, egli non si sarebbe mai permesso per tutto l’oro del mondo di contravvenire alla benché minima disposizione emanata da qualsiasi codice: civile, ecclesiastico, penale, marittimo, stradale e via dicendo. Per questo stava alle regole del Paterno, specialmente quelle concernenti l’ora dei pasti, e osservava con fedeltà scrupolosa i “precetti generali della Chiesa”.

Si rifiutava, ad esempio, di portare in treno una lettera chiusa che non fosse munita di regolamentare affrancatura; faceva la Comunione a Pasqua; ma invitato a comunicarsi in qualche altra circostanza, opponeva un risoluto diniego, affermando che egli intendeva stare alle disposizioni ecclesiastiche le quali prescrivono di comunicarsi  almeno una volta l’anno. Egli sottolineava l’almeno  come stretta e rigorosa misura del proprio dovere.

Col senso del dovere aveva tenacissimo quello del diritto proprio e d’altrui, da rispettare ad unguem. Non faceva distinzione sull’oggetto del diritto: valeva  per lui il diritto all’assistenza come il diritto all’ultima buccia di mele che stava sul piatto in attesa di subire l’immancabile processo di revisione a scopo di sfruttamento integrale delle vitamine.

Don Orione l’aveva messo alla tavola dei superiori con parecchi sacerdoti e qualche ospite di riguardo che ogni giorno capitava alla Casa Madre. Si sa che non manca mai qualche capo scarico che prende gusto a divertirsi coi semplici. E un divertimento abituale col chimico, trascinato nel gioco in forza della sua teoria sul Diritto pubblico e privato, era quello conseguente al furto dell’anello che serviva a custodia del tovagliolo. Non che al chimico importasse in modo particolare quell’anello di legno lucido d’opale: ne avrebbe anche fatto a meno senza rimpianti ma, dal momento che era stato messo una prima volta al suo posto a tavola, esso diventava per lui la materializzazione e insieme il simbolo intangibile del diritto personale. Figuratevi quando qualcuno glielo carpiva di nascosto; la reazione del chimico era perentoria, immediata, decisa a tutto pur di approdare alla riconquista dell’anello.

Quel giorno don Orione non c’era. C’era don Sterpi al centro della tavola, disposta a ferro di cavallo: e si stava nella fase iniziale del pranzo, durante la lettura. Il chimico sorrideva beato al piatto fumante della minestra e, svolto il tovagliolo, se lo infilava a un occhiello della giacca, quando uno dei capiscarichi di cui sopra, passandogli davanti, rapì l’anello e con disinvolta noncuranza si portò al lato opposto della tavola, proprio di fronte a lui, agitando il trofeo in segno di vittoria.

Un finimondo. Il chimico partì in quarta alla riconquista della preda; ma per disavventura scostò da sé con tanta violenza la sedia da sbatterla sui vetri della finestra che dava luce al palco dei superiori, fracassandoli tutti e provocando tra i chierici un certo sbigottimento.

L’anello, per evitare il peggio ebbe la buona idea di volare immediatamente nei paraggi del chimico che lo fermò al volo e si sedette tranquillo come un pasci’. Non così i responsabili diretti del cataclisma, che dovettero chinare lo sguardo, non riuscendo a sopportare l’occhiata severissima di don Sterpi, che non disse parola, ma troncò definitivamente il gioco dell’anello. Chi mai avrebbe osato riprenderlo, anche a manovrare in una camera blindata?

Semplice si, ma non semplicista e ancor meno semplicione.

La sua umiltà e la sua semplicità erano la ragione di un’altra sua virtù, la fortezza. Diffidando di sé, procedeva cautamente prima di determinarsi; ogni decisione voleva maturata nella riflessione e nella preghiera. Ma una volta presa una risoluzione nessuno poteva sperare di fargliela rientrare con dei vani argomenti. Era irremovibile, non ostinato, beninteso: la sua irremovibilità era dovuta al fatto che tutte le obiezioni non valide erano già state in precedenza vagliate. Egli se mai ritornava sulla sua decisione soltanto quando essa aveva già operato l’effetto voluto, determinando ad esempio il pentimento nel colpevole; oppure quando fossero venuti in luce elementi nuovi dinanzi ai quali la ragionevolezza doveva piegarsi. Fortiter et suaviter era l’agire di don Sterpi. Forte nel reprimere ogni abuso e negli interventi richiesti dalla sua responsabilità di superiore in modo che mai avessero a verificarsi rilassatezze o scandali, egli era largo, condiscendente, paterno con chi  mostrava buona volontà di riprendersi.

Fortezza illuminata di bontà.

 

Pazienza

Tutta la sua vita fu un esercizio di pazienza, fiore tanto fulgido quanto spregiato dall’insipienza del mondo.

La pazienza è virtù dei forti che vedono le cose dall’alto della loro saggezza e sanno sorridere di tutte le meschine affermazioni dell’orgoglio. Il paziente opera la compressione dell’amor proprio e persegue un trionfo duraturo.

Don Sterpi non era remissivo a volontà dispotiche, né succube della prepotenza altrui; neppure si rassegnava alla ineluttabilità degli eventi contrari, tutt’altro: Egli non agiva da pavido, ma era paziente e quindi sapeva tollerare e dimenticare ciò che poteva offendere la sua suscettibilità per salvare i diritti della carità.

Vissuto sempre nell’ombra di don Orione, continuò umilmente a dipendere da lui, seminando il bene nei solchi da lui tracciati, senza mai tradire il benché minimo impulso a sostituirvisi con delle cose nuove e originali.

Nei riguardi dei confratelli era di una inalterabile tranquillità spirituale. Ne sopportava i difetti e spesso dissolveva in sé le amarezze che da qualcuno gli venivano procurate, tutto velando di pazienza e di bontà.

Nelle comunità non mancano mai questi “inviati del Signore” a perfezionare la virtù del prossimo. Ce n’era uno che dava veramente da fare al povero don Sterpi. Ma egli non se ne fece mai accorgere. Solo una volta che il medesimo soggetto stava operando la santificazione, attraverso la pazienza, di un altro, che se ne lagnava con don Sterpi, questi accennò al gravoso peso di tolleranza che toccava a lui da “quel benedetto figlio”. E per lui in pubblico ebbe sempre espressioni non solo di stima, ma di confidenza quasi scherzosa.

Un suo antico orfanello da lui cresciuto con l’amore di un padre e sistemato in una piccola azienda industriale, ebbe la sventura di lasciarsi irretire nella passione del gioco, dove perdette tutti i suoi risparmi; e ridotto alle strette s’indusse a prelevare dalle somme della cassa dell’azienda, forse con l’intenzione di risarcirla in seguito dal danno.

Don Sterpi, che già precedentemente era intervenuto a suo favore, tamponando larghe falle del suo dissesto finanziario, venne a sapere di quelle sottrazioni, ma non perdette la pazienza. Ragionò sul fatto col cuore, più che con l’animo offeso: temette più di perdere un’anima affidatagli da Dio che di rimetterci in denaro.
Mandò a chiamare il colpevole, gli disse parole tutte di padre e poi nel congedarlo gli mise in mano la somma di denaro necessaria a evitare il peggio.

Sono fatti che illustrano da soli la virtù di don Sterpi. La cosa merita rilievo in quanto per natura egli aveva i nervi piuttosto pronti a scattare, come gli avveniva qualche volta. Ma anche in quei momenti sapeva dominarsi. Il gesto era tagliente, risoluto, imperioso ma le parole a carico di chi metteva a così dura prova la sua pazienza non giungevano oltre la qualifica estrema di “benedetto figlio”, “quel benedetto figlio”.

 

Povertà

Di San Francesco di Assisi è compendiata la virtù nel distico pauper et humilis. La grande umiltà di don Sterpi si veste di povertà. Che mirabile esempio fu per la congregazione! Non era di famiglia povera e avrebbe potuto sistemarsi in una tranquilla posizione di benessere materiale. Eppure, messosi al seguito di don Orione, ne divenne l’interprete più fedele anche nella pratica della povertà religiosa.

Distacco affettivo ed effettivo. In tutto il suo tenore di vita era l’affermazione dello spirito di povertà. Chi non ricorda don Sterpi nei lunghi mesi invernali chiuso in un pastranone pesante che dava quasi il senso della fatica a portarlo? Quel vecchio pastrano rimase per tanti anni il più cospicuo indumento invernale di don Sterpi: pulito, ordinato, ma rammendato, liso ai bordi, faceva le prime apparizioni sotto i Santi e durava in carica fin verso Pasqua, per cedere il posto a quello altrettanto povero dell’estate. Il cappello invece era immutabile e prima di procedere a una sostituzione ne passavano degli anni!

Questo non per grettezza, ma per amore alla povertà, che poi si manifestava anche alla mensa comune frugalissima e si comunicava all’arredamento della camera. Pensiamo: anche da Superiore generale egli non ebbe mai in camera o in direzione nulla che sconfinasse dalla povertà originaria: scaffalature di legno grezzo, neppur piallate, scrivania semplice, stufetta fumogena. Di bello la statuetta della Madonna e… il candore di povertà. Non parliamo di installazioni di telefoni e radio. Niente. Se squillava il campanello del telefono don Sterpi si alzava bravamente dal suo seggiolino e, traversate alcune stanze, si recava a quell’unico apparecchio che funzionava per tutta la casa. Voglio dire che egli circondava la povertà di un largo margine di eroismo.

I suoi viaggi erano anch’essi un monumento innalzato alla povertà. Non valeva per lui la speciosa ragione del biglietto gratuito. Con mentalità francescana egli pensava che la povertà è non solo risparmio di denaro, ma soprattutto… risparmio di comodità e quindi prendeva la terza classe come i poveri.

Durante i viaggi non era facile indurlo a spendere del denaro per rinfreschi e per alberghi. Rimandava sine hora l’appetito che s’allungava in fame bella e buona, fino all’arrivo a destinazione. Spese in giornali, riviste, libri, per il puro godimento intellettuale, non ne faceva mai ma consentiva che altri per giuste ragioni ne facesse; ed era generoso nel promuovere la buona stampa.

Quando  uscì una biografia di don Orione edita da Salani, egli ne incrementò la diffusione acquistandone copie a centinaia da regalare agli Amici e ai Benefattori, ma soprattutto per un senso di solidarietà con l’editore che giustamente si riprometteva dalla Congregazione un po’ di propaganda.

Viaggiava moltissimo anche in automobile, quando subentrò a don Orione nella direzione della Piccola Opera, ma per brevi tragitti non disdegnava l’umile tram e il cavallo di San Francesco. E ci par di rivederlo negli ultimi anni quando se ne veniva dal Paterno al Santuario della Guardia a piedi, da solo, per far visita alla Madonna e ritrovarsi un po’ con i suoi orfanelli.

Questi esempi sono un programma per l’avvenire della Congregazione e valgono almeno quanto il giuramento di povertà a cui don Orione ha sottoposto i suoi sacerdoti anziani. Nel giuramento non sono delimitati i confini della povertà. Nella vita di don Orione e di don Sterpi la povertà si configura in forme pratiche.

 

Obbedienza

Il grado più alto di umiltà, quello in cui si risolve la vera vita religiosa, è l’obbedienza.

Stava per conchiudersi al Santuario della Madonna della Guardia il secondo Capitolo Generale della congregazione con una funzione di ringraziamento compiuta dal Visitatore Apostolico l’Abate Emanuele Caronti, alla presenza dei sacerdoti partecipanti e di alcune centinaia di religiosi e di suore che affollavano il tempio. I membri capitolari avevano preso posto in presbiterio.

Venne il momento del solenne rito di obbedienza da prestarsi al nuovo Superiore generale, eletto nella persona di don Carlo Pensa, che succedeva così al venerato don Sterpi dopo che questi aveva insistentemente pregato i confratelli di esonerarlo dalla carica.

Certo era sincera l’insistenza di don Sterpi, ma chi può dire che il suo amor proprio non dovesse subire una fiera compressione dalla volontà di rinuncia e di conseguenza a quello che era anche un desiderio del Visitatore Apostolico, preoccupato delle sue condizioni fisiche in sfacelo dopo tanto dispendio di energie nell’adempimento del suo mandato? Si trattava di rientrare nei ranghi di fronte a tutta la congregazione.

Nascondersi questi aspetti della rinuncia di don Sterpi significa precludersi la giusta valutazione della sua virtù di obbedienza. In generale quando usciamo da una carica per sé onorifica abbiamo l’impressione di portare scritto sulla fronte il nostro dramma interiore e che tutto il mondo ci osservi. Sono difficilissimi i primi incontri. Molti preferiscono eclissarsi, anche se non c’è nessuna ragione di sentirsi menomati, ma solo una benefica umiliazione, piuttosto di ricomparire in quell’ambiente dove tanti nostri dipendenti da quel momento diventano nostri uguali. Nessuno potrebbe pensare che uno solo dei presenti al Capitolo osasse considerare don Sterpi diverso da quello che era nel concetto di tutti prima di scadere dalla sua carica: ma qui si vuol notare che altro è l’inalterabile affetto di tutti verso colui che si volle subito definire “il padre della Congregazione”, quasi a dire il continuatore di don Orione ad vitam et ultra, altro è la sua posizione effettiva di fronte al Diritto Canonico e al governo della Congregazione. Tutto ciò è un peso che, volere o no, grava sull’animo del Superiore uscente e attira su di lui lo sguardo di ognuno.

Ebbene: don Sterpi fu presente a tutto. Nella cappella del Paterno, dove si cantò il Te Deum,  nel santuario dove ci si disponeva a fare atto di obbedienza al nuovo Superiore. E fu un momento di indicibile commozione quello in cui si vide don Sterpi staccarsi per primo dal suo posto in presbiterio e con passo fermo e devoto, chinandosi ancor più in segno di sottomissione, avanzare verso don Pensa seduto su di una poltrona davanti all’altare, e prostrarsi in atto di obbedienza, seguito poi da tutti i membri del Capitolo. Si vedeva sul volto austero e compreso di mistica pietà la fede che lo sorreggeva e lo animava; appariva nel fulgore del buon esempio il religioso osservante che con la vita commentava nel modo migliore i suoi insegnamenti; nel suo atto di obbedienza si ammirava l’espressione di un’umiltà sincera e profonda.

 

Fede

La fede era la grande virtù che guidava i passi di don Sterpi. Una fede operosa, pronta a manifestarsi nei momenti più duri e difficili e che egli rinfocolava, come vedremo, ai piedi del santo Tabernacolo. Nella devozione alla Madonna, nello spirito di ossequenza alle Autorità religiose, il Papa, i Vescovi, i Sacerdoti e coloro che egli considerava i suoi nuovi Superiori.

È la fede nella Provvidenza, il pensiero del Paradiso che, mentre lo aiuta a frantumare difficoltà di ogni genere, tiene il suo cuore sempre distaccato dai beni della terra, che pure egli deve trattare per provvederne caritatevolmente i bisognosi, senza che si affievolisca la spiritualità delle sue azioni.

La fede nella Provvidenza non gli impediva infatti di mettere in funzione l’industriosità umana nel procacciare quanto di materiale era necessario al mantenimento dei suoi protetti e dei membri della Congregazione, con un senso dell’economia e una tattica del risparmio che un conservatore superficiale poteva forse fraintendere scambiandola per tirchieria, con una meticolosità di attenzioni e di controlli da dare l’impressione errata di curare gli interessi finanziari come fine a se stessi.

In verità don Sterpi, fornito di buon senso, metteva semplicemente in pratica il savio ammonimento: “Aiutati che Dio ti aiuta” e non intendeva tentare il Signore con dell’ignavia. Uomo dal raro equilibrio morale, egli metteva in azione contemporaneamente la virtù della fede e quella della povertà, lo zelo operoso e la santa indifferenza alla volontà di Dio, che non comporta fatalismi né restrizioni alla carità a titolo di previdenze umane, ma si attua a risultati conseguiti. Da buon piemontese ha le piante saldamente fisse a terra, ma da Figlio della Divina Provvidenza ha l’anima sempre volta al Cielo.

La fede diventa allora fiamma di carità.

 

Carità – Il suo cuore nei “Piccoli Cottolengo”

Non si può parlare di carità dove prima non si accampi, nella pienezza dei suoi diritti, la Giustizia.

Don Sterpi ebbe vivo il senso di questa e delle altre virtù cardinali. Valga un esempio. Quel valentuomo semplice e bonario che fu Michele Bianchi, brianzolo, detto tra noi il “capomastro della Provvidenza” si adoperava volenterosamente a procurare l’interesse della congregazione. Incaricato di recuperare alcuni mobili di una eredità, aveva allestito un grosso automezzo, caricandovi quello che era di spettanza diretta e qualche arnese che era di spettanza presunta e vi si trovava conglobato alla rinfusa. L’automezzo giunse a Tortona e don Sterpi rimase tutt’altro che edificato nel constatare la presenza di alcuni oggetti non compresi nella lista, tanto che, perdonando al capomastro l’intenzione di rendersi utile, diede ordine al camionista di ripartire immediatamente per la consegna del superfluo, rimettendoci, beninteso, il tempo e la benzina. Fu una buona lezione di estrema delicatezza nel maneggio delle cose.

Il cuore di don Sterpi arse di carità, cioè dell’amore di Dio indissociabile dall’amore del prossimo. Il suo spirito di carità si riverberava nel tratto dolce e riguardoso, nella consuetudine di bontà, di modestia, di compatimento, di pazienza, di sollecitudine, in modo che questa così necessaria virtù, da lui costantemente esercitata, fa riapparire come in uno schermo l’intera sua figura morale già delineata nei vai aspetti di educatore dei giovani, di “mamma dei chierici”, con tutto il repertorio di finezze che la qualifica comporta, di rifugio degli erranti e conforto dei bisognosi; per cui a buon diritto egli può essere definito  “il padre della congregazione”.

E se un episodio si dovesse scegliere fra i tanti per caratterizzarlo, forse nessun altro come quello dell’operaio da lui riabilitato si presterebbe al caso. Ma sono a centinaia. E non si tratta di fatti sporadici, occasionali: sono la sua prassi, il suo costume di vita. Egli esercitò la carità nelle forme più semplici ed evangeliche, senza “suonare la tromba”.

Una persona interrogata un giorno sulle virtù dell’Abate Chevrier, rispose: “Io non so se sia un santo o se faccia dei miracoli; so però che chiude bene le porte dietro di sé” (P. Plus).

Ecco una minuzia che giudica un uomo. Don Sterpi era uno che chiudeva sempre le porte dove passava. Con le piccole cose procacciava le grandi. Inezie? Domandatene a chi, attendendosi una parola da chi gliela dovrebbe per obblighi di religione, si vede trascurato ed è indotto da ciò a gesti precipitati, mentre sarebbe stato facile risparmiargli simili tragedie usando un po’ di carità.

Don Sterpi aveva per ognuno le parole adatte. Non c’era bisogno di sollecitare le lettere da lui. Di sua iniziativa spediva il regalo di un ricordino, di un libro, d’una circolare di don Orione, e teneva aggiornata la distinta dei benefattori, delle Autorità e degli ex allievi, perché a nessun conto avrebbe tollerato di dimenticarne qualcuno. Faceva questo con tanto spirito di sincerità e di affetto che una firma valeva un palpito del suo cuore.

Una carità così intesa, che nulla considera trascurabile di ciò che promuove il bene del prossimo o soddisfa il desiderio dei fratelli e discende, da una partecipazione platonica o affettiva, alle forme dell'assistenza materiale verso chi soffre, è quella suggerita dall’Apostolo San Giacomo.

Don Sterpi si faceva scrupolo di provvedere alle esigenze delle persone cagionevoli poste sotto la sua responsabilità. Scrivendo a una Suora da lui preposta alla direzione di un Asilo poverissimo, non lasciava di raccomandarle di nutrirsi perché il clima di quella regione era esiziale e occorreva fronteggiare i pericoli dell’esaurimento con una dietetica sostenutissima. I Santi del resto sono fatti così e detestano ogni formalismo proprio dei Farisei. L’austerità, la mortificazione, la impongono a se stessi prima che agli altri.

Nei “Piccoli Cottolengo” la carità di don Sterpi si sublima. Là ci sono tutte le miserie fisiche e morali ripartite su vasta scala nella gerarchia delle età, dei ceti e dei dolori che inducono a meditare. Don Sterpi ci si ritrovava come in un ambiente saturo di spiritualità e apriva in luce di soprannaturalità quel suo sorriso paterno sui deficienti mentali, sugli orfanelli, sui malati cronici, sulle povere mentecatte che tenevano occupata la sua mente e vigile il suo cuore nell’apprestamento dei soccorsi morali e materiali.

Tra i piccoli egli sapeva farsi piccolo “sapientemente” come è detto di San Filippo Neri. Non fingersi piccolo, che è ben diversa cosa. Ci vuole anche una disposizione naturale per realizzare la massima evangelica senza cadere nella contraffazione e negli adattamenti artificiosi e a don Sterpi riusciva facile acclimatarsi all’ambiente dei fanciulli, perché ingenuo e verginale ea il suo cuore.

Lavorava d’impegno a provvederli di tutto il necessario, sia come personale assistente, suore e chierici o sacerdoti, sia come mezzi di sussistenza e di vestiario, curando di crescerli in un ambiente sano, interessandosi dei loro giochi e delle loro passeggiate, promuovendo la loro educazione scolastica e la formazione religiosa; e ancor più, con attenzioni adeguate, soccorreva gli altri, i “buoni figli”, i deficienti psichici e fisici, che passavano la lunga giornata della vita nella densa caligine della destituzione di ogni lume di intelletto e abbisognavano di una continua sorveglianza da parte delle suore poste alla loro custodia.

Per questi poveri ragazzi don Sterpi destinò la cospicua elargizione del compianto Paolo Pedevilla e trasformò una delle case più belle della periferia di Tortona nel “Piccolo Cottolengo Tortonese”, dotandolo di una scuola di rieducazione riconosciuta dallo Stato.

Che festa intorno a lui quando egli li visitava nei diversi istituti di Genova, di Milano, di Tortona e nelle succursali che durante la guerra la sua grande carità aveva saputo aprire in località meno esposte ai pericoli delle incursioni, come Sordevolo, Induno, Torriglia, Rovegno, Gavazzana.

Don Sterpi era presente dovunque il dolore levava la sua voce. Per salvare la vita e la già molto relativa pace delle inferme mentecatte del Paverano di Genova, egli ritirò i chierici dalla storica Villa Lomellini di Montebello e ve le trasferì; e altre centinaia di povere pazze ricoverò nelle case di Tortona.

Charitas nunquam excidit, dimostrava coi fatti don Sterpi che, posto di fronte a un’alternativa rispetto ai bisogni immensi che lo circondavano, scelse sempre i più poveri, i più meschini, quelli che la società non usa considerare i prediletti delle sue attenzioni.

Don Sterpi non fu solo un interprete efficace di don Orione: fu il suo continuatore. Dopo aver tentato un’interpretazione della sua anima, riprendiamo il filo della narrazione cronologica da quell’alba triste del 13 marzo 1940 in cui si sparse per il mondo la notizia che don Orione non era più tra noi.

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