Questo sito utilizza cookie per le proprie funzionalità e per mostrare servizi in linea con le tue preferenze. Continuando a navigare si considera accettato il loro utilizzo. Per non vedere più questo messaggio clicca sulla X.
Messaggi Don Orione
thumb

Nella foto: Convegno di Pontecurone (AL), 25 gennaio 2019.

Conferenza di Don Flavio Peloso al Convegno per le Scuole superiori di Tortona e Pontecurone, 25 gennaio 2019.

 

IL SENSO DEL GIORNO DELLA MEMORIA

Il Parlamento italiano, con la legge 211 del 20 luglio 2000, stabilì che “La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, ‘Giorno della Memoria’, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.[1]
 

Ricordare, documentare i fatti. Quando le truppe sovietiche, il 27 gennaio 1945, arrivarono presso la città polacca di Oświęcim (più nota con il suo nome tedesco di Auschwitz), scopersero per prime il tristemente famoso campo di concentramento liberandone i pochi superstiti. La scoperta di Auschwitz e degli altri Lager nazisti e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono al mondo l'orrore del genocidio nazista. Ci fu subito la preoccupazione di fotografare, di raccogliere documenti per documentare, per ricordare. Evidentemente non fu per alimentare nuovo odio contro qualcuno, ma per dire: è tutto vero, guardate a che punto siamo arrivati, mai più! Questo è anche lo scopo voluto dalla legge che istituì il Giorno della Memoria: “conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere”.

Unicità e ipersensibilità di fronte alla Shoah. Lo sterminio, operato negli anni del nazismo, ha colpito diverse categorie di persone, vari popoli, molte nazioni. È indubbio che il prezzo di gran lunga più alto pagato fu quello del popolo ebreo, che non solo fu sterminato ma si volle eliminare in quanto popolo (Shoa’h). Questo è lo specifico orribile della shoah. Il motivo razziale è quello oggettivo ed evidente, ma ce ne furono altri di tipo religioso ed economico non meno determinanti.
Continua oggi un’ipersensibilità civile e anche politica a tutto ciò che sa di razzismo antiebraico. È esagerata? È strumentalizzata? “El que se ha quemado con leche, ve la vaca y llora”. Questo detto spagnolo l’ho ascoltato tante volte in Argentina: chi si è scottato con il latte, quando vede la mucca piange. La ferita della Shoah è impressa profondamente nella memoria e nella sensibilità personale e collettiva degli ebrei e del mondo civile migliore. Al minimo accenno concreto di offesa, di ostilità scatta una reazione fortissima, ben comprensibile. E necessaria.

Il “giorno della memoria” ci invita a pensare e a rivivere come terapia preventiva questa fosca e inumana pagina del XX secolo. Però la Giornata della memoria è stata istituita e va vissuta per ricordare anche “coloro che, in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”. In quegli anni tenebrosi ci furono pagine di solidarietà umana, di ragionevolezza e di carità, scritte contemporaneamente ai terribili fatti di morte, per proteggere la vita degli ebrei e di altri minacciati che costituiscono piccole ma potenti luci di civiltà. Io credo che il contrasto tra tenebre e luci, tra odio omicida e fraternità salvatrice, possa educare a quella quotidianità della responsabilità, personale e civile, nella lotta tra bene e male, tra vita e morte: un duello vinto dal Cristo ma ancora aperto nella storia.

De re nostra agitur”. Riassumo il secondo pensiero con la frase latina che ci ricorda che “si tratta di cosa nostra”, che ci riguarda tutti. L’antisemitismo riguarda il rispetto dell’uomo in quanto tale, a prescindere dalla sua identità di popolo, di cultura, di religione e di politica. Accettare o anche solo essere indifferenti all’antisemitismo e a qualsiasi forma di odio organizzato significa dire “si può”, mentre la memoria e l’indignazione dicono “mai più”.
Aggiungo ancora una considerazione. L’antisemitismo tocca anche noi cristiani, a volte come protagonisti (sempre meno!) e a volte come destinatari. Il cardinale Georges Cottier ha giustamente affermato che “l'antigiudaismo è di essenza pagana ed è, nella sua mira più profonda, un anticristianesimo”.  Israele fa parte della "storia della salvezza". Che Gesù fosse ebreo e che il suo ambiente fosse quello ebreo non è un fatto contingente, culturale. No, fa parte del mistero dell'incarnazione! È un evento soprannaturale come lo è la elezione del popolo ebreo quale popolo di Dio e l'irrevocabilità della chiamata e dell'amore di Dio per esso. È a questo livello di "soprannaturalità" che si pone il rifiuto dell'antigiudaismo da parte dei cristiani: "de re nostra agitur". Ci riguarda.

Il tema specifico del nostro ricordo è “Don Orione e la Shoah”. Ci occuperemo degli anni che vanno dal 1938 al 1944. Il 15 luglio 1938 fu pubblicato il Manifesto della razza e qualche mese dopo furono emanate le leggi razziali fasciste (leggi, ordinanze, circolari).  Esse furono rivolte prevalentemente contro gli Ebrei. Ebbero una più dura applicazione dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando i tedeschi presero in mano la situazione italiana e giunsero alla deportazione in massa, specialmente degli ebrei delle comunità di Roma e delle altre città d’Italia. Le leggi razziali furono abrogate il 20 gennaio 1944.

 

DON ORIONE E GLI EBREI

Don Orione entrò in contatto con Ebrei soprattutto per motivi religiosi (convertiti) o caritativi (benefattori). Quando egli morì, 12 marzo 1940, non era ancora giunta all’acme l’ondata persecutoria contro gli Ebrei concretizzata in arresti, deportazioni nei campi di concentramento e sterminio di massa. Ma il clima era già manifestamente loro ostile e molti emigrarono in nazioni più sicure. Già quando Don Orione si era imbarcato dal porto di Genova, il 24 settembre 1934, per andare in Argentina, gli fu chiesto di aiutare alcuni ebrei a trovare un rifugio sicuro in Argentina.

Tornato in Italia, si rese conto della situazione mutata e, il 13 dicembre 1938, commenta: “Io non so se siamo alleati o pedissequi o rimorchiati dai Tedeschi: io non lo so; si sa una sola cosa: che vanno e vengono e passeggiano per l’Italia, come fossero i padroni d’Italia” (Parola X, 485).

Era a conoscenza del grande esodo di ebrei dall’Italia. In una lettera del 1° marzo 1939, fa sapere dei problemi per l’imbarco di alcuni suoi missionari: “dato il numero grande di passeggeri ebrei, si teme che non faremo a tempo, se più ritardate, perché non ci sarà più posto”.[2]

Egli stesso si interessò per l’espatrio a Montevideo della famiglia dell’Avv.to Edoardo Sacerdoti di Augusto, di Milano, scrivendone il 5 luglio 1939 a Don Pietro Migliore. Poi con lettera del 4.8.1939, l’affida a Don Zanocchi, a Buenos Aires, riconoscendo che “Le disposizioni legislative italiane hanno resa, direi, impossibile moralmente la loro vita qui, onde hanno potuto ottenere di venire in Argentina. Caro Don Zanocchi, Ve lo raccomando quanto so e posso, e Vi dico che avrò come fatto a me quanto potrete fare per questo mio carissimo Amico”.[3]

Testimoniò Don Giuseppe Zambarbieri: «Non c'era sventura cui Don Orione non si sentisse come spinto a porgere sollievo. Quando si scatenò violenta la persecuzione contro gli ebrei, intervenne a loro favore, riuscì a salvarne molti, offrendo un rifugio; ad altri seppe porgere almeno una parola di paterna comprensione, quando era materialmente. impossibilitato a fare di più.»[4]

Il confratello Don Fausto Capelli ricorda persone importanti entrate nell’orbita di Don Orione come l'ing. Tito Gonzalez, ebreo,[5] il Sig. Umberto Griziotti,[6] i coniugi Enrico e Carmela Laffe.[7] In alcuni casi la solidarietà umana sfociava anche nella conversione. Don Orione in una Buona notte annuncia: «Poi domani, andrò a Roma, dove mi fermerò pochi, pochissimi giorni, per battezzare un ebreo… Non è uno che si converte per le disposizioni ultime relative agli ebrei determinate dal Governo; egli è alla vigilia di lasciare l’Italia, e non vorrebbe lasciar Roma, senza aver ricevuto prima il battesimo».[8]

In altra occasione informa che nella basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma, “ho potuto battezzare un capo degli Ebrei, il comm. Cohen, che ha dato milioni al fascismo. Fui invitato a battezzarlo senza che io sapessi neppure chi fosse... In questi giorni è stato spogliato di tutto perché ebreo. Ricevette il battesimo molto preparato. Qualche giorno dopo gli fu tolta la tessera del fascio ed egli rispose: Ora tengo una tessera ben più preziosa, la tessera di Cristo, che nessuno mi può togliere».[9]

La persecuzione degli ebrei, a seguito delle leggi razziali, fu una nuova emergenza a cui far fronte con tutti i mezzi, per seguire l’invito di Pio XII: «Salvate gli ebrei, anche a costo di sacrifici e pericoli». In tante case i sacerdoti e i religiosi di Don Orione furono richiesti di proteggere e di nascondere gli ebrei minacciati e perseguitati, sia da amici, sia dai vescovi, come ad esempio dai cardinali Schuster di Milano, Boetto di Genova, Fossati di Torino, che avevano organizzato nelle rispettive sedi dei centri di aiuto.

Ci furono richieste anche dalla Santa Sede, avendo come referenti mons. Montini e mons. Tardini, sostituti alla Segreteria di Stato, per portare aiuti di ogni genere a chi ne aveva bisogno. Don Biagio Marabotto, superiore dell’Opera Don Orione in Polonia, che aveva passaporto italiano e tedesco, fu un provvidenziale corriere della Santa Sede tra Roma e Varsavia.[10]

Don Orione, in Italia, venne a sapere che a Zdunska Wola, in Polonia, una bomba era caduta su una chiesa e scrive: «Non sappiamo niente dei nostri sacerdoti, chierici, suore... Qual è, dunque, il nostro dovere? Raccomandiamo i nostri fratelli e la Polonia al Signore e anche tutto quel popolo martire. Pregare, pregare, pregare! Si sa che là ci sono parecchi milioni di Ebrei: preghiamo anche per gli Ebrei: tutti siamo fratelli!»[11]

Tutti siamo fratelli!”: è la ragione ovvia del rispetto e dell’aiuto. Ma a quel tempo – e succede ancora – non era ovvio che “tutti siamo fratelli”.

Don Orione, per la sua grande carità, era libero dai condizionamenti nazionalistici, razzistici e anche religiosi, sebbene apparissero normali nel contesto socio-culturale dell’epoca. Rimase famoso a Tortona un episodio, subito dopo l’invasione della Polonia (1° settembre), non aveva esitato a manifestare il suo affetto verso la Polonia invasa dalle truppe tedesche, prima facendo baciare a tutti la bandiera della Polonia stessa sull’altare della Madonna della Guardia e poi, il 4 settembre 1939, accompagnando solennemente i suoi chierici polacchi in corteo, con la loro bandiera, alla stazione di Tortona, in partenza per andare a difendere la patria, invasa dalla Germania nazista. E questo nell’Italia del fascismo schierata a fianco della Germania. Nel salutare i chierici polacchi, Don Orione disse loro: “Non guardate ai giornali, perché è evidente che, se i giornali italiani parlano male dei polacchi, quelli polacchi parlano male degli italiani. Ma noi dobbiamo essere superiori a queste tristi vicende! […] Non guardate ad essi, perché se la prepotenza di un uomo [Hitler] cerca di mettere lo scompiglio e gettare un’ombra sui due popoli, non gli riuscirà mai di togliere la fede comune, il nostro amore al Papa, la simpatia che i due popoli hanno sempre avuta tra loro(Parola XI, 109-114).

Don Orione morì a Tortona il 12 marzo 1940. Aveva appesa nella parete della sua stanza la grande bandiera polacca segno di una fraternità senza confini.

 

GLI ORIONINI IN AIUTO AGLI EBREI

È da molto tempo che raccolgo notizie sul tema dell’aiuto agli Ebrei della Congregazione.[12] Negli archivi non è facile trovare notizie, perché il tema era allora pericoloso e coperto da grande riservatezza.

L’aiuto agli Ebrei durante il tempo dello sterminio costituisce una pagina importante della vita della Piccola Opera della Divina Provvidenza, delle sue case e dei suoi religiosi. Si può dire che quasi ogni casa della Congregazione ha accolto, nascosto, aiutato ebrei durante le leggi razziali. Si costituì una rete di protezione e di salvezza usufruendo di tutte le possibilità di inserimento e di nascondimento nelle diverse opere e attività della Congregazione in Italia, da Nord a Sud, di preti e suore, di attività per ragazzi e adulti, uomini e donne, scuole e opere di assistenza.

Principali centri di questa rete furono Genova, Milano, Torino e Roma. I nomi di alcuni protagonisti sono ormai noti. Don Gaetano Piccinini nell’area romana, Don Enrico Sciaccaluga e Suor Stanislaa Bertolotti a Genova e Liguria, Don Fausto Cappelli e Suor Maria Croce a Milano, Don Giuseppe Pollarolo a Torino, Don Giovambattista Lucarini nel tortonese e alessandrino. Su tutto e su tutti vegliava e incoraggiava Don Carlo Sterpi, allora superiore generale.

Rinvio alla descrizione di queste vicende drammatiche e gloriose fatta nell’articolo Orionini in aiuto agli Ebrei negli anni dello sterminio.

Mi limito qui a richiamare l’attenzione su due storie personali – quella dello scultore Arrigo Minerbi e quella di Don Giuseppe Sorani - che sono emblematiche di quanto vissuto in quei tempi e pedagogiche di quanto dobbiamo ancora vivere oggi personalmente e socialmente.
        

ARRIGO MINERBI

Era uno degli scultori più famosi e più gettonati anche dal regime fascista. Arrigo Minerbi era uno scultore ebreo, nativo di Ferrara.[13]

Dopo la morte di Don Orione, gli Amici di Milano desideravano subito averne le sembianze in una statua e si erano rivolti allo scultore Arrigo Minerbi, tramite i coniugi Giannino e Gina Bassetti. Si era nel 1940. Ebbero la pronta disponibilità dello scultore che studiò Don Orione e realizzò la statua in marmo del Don Orione morente, che risulterà essere il suo capolavoro.

Di lì a poco, anche su Minerbi si abbatté la minaccia delle leggi razziali. Don Sterpi lo nascose prima nella casa paterna di Gavazzana, vicino a Tortona, poi, dopo che i tedeschi ne avevano scoperto il rifugio, lo fece trasferire a Roma, affidandolo ad Antonio Tosi.[14] Il viaggio durò tre giorni e tre notti. Quando a Roma, in via Appia Nuova, la vettura viene fermata, con i sei passeggeri, a un posto di blocco tedesco, a tutti controllano i documenti, tranne che al signor Arrigo Della Porta, il nuovo nome di Arrigo Minerbi.[15] Si sentì salvato. Un fratello dello scultore, Gino Minerbi, ch’era stato anche lui nascosto al Piccolo Cottolengo di Milano, mentre tentava di espatriare in Svizzera, sorpreso sulla linea di confine, vi trovò la morte. Anche un altro dei fratelli, prima messo in carcere, morirà.[16]

Arrigo Minerbi narrò il suo arrivo all’Istituto San Filippo Neri, dove fu a lungo ospite fino alla fine della guerra, sotto il falso nome di Arrigo Della Porta.

«Roma, 7 dicembre 1943. Scaricato da un’auto di fortuna, sotto un diluvio d’acqua, fuggiasco con falso volto e falsi documenti, entro all'Istituto San Filippo. Una folata di ragazzi mi investe. Sono centinaia che mi urtano, mi spingono e io m’immergo nell’onda in tempesta… finché una porta s’apre e due braccia fraterne mi accolgono: il naufrago è a riva.
L’ambiente mi apparve dopo i primi giorni alquanto strano. Professori e maestri in soprannumero… Figure alquanto enigmatiche di laici. L’assordante cicaleccio di quegli ottocento ragazzi celava e proteggeva l’opera di sublime carità di quei sacerdoti che rischiavano la vita per salvare i perseguitati…».
Minerbi poté passare in quell’Istituto, con ruolo di professore, i tempi dei rastrellamenti degli Ebrei a Roma. Ricorda che per riconoscenza e per tenersi in attività come scultore volle plasmare, con strumenti di fortuna, una piastrella con il volto di Don Orione, che egli chiamava “la piastrina del soldato”.
[17]

Giunse la liberazione e Arrigo Minerbi poté tornare alla sua famiglia e al suo lavoro. È lui che modellò la grande statua della “Madonnina” di Monte Mario a Roma dando alla Madonna i lineamenti del Gesù della Sindone perché – diceva – il primogenito “matrizza”. Morì a Padova nel 1960.
 

GIUSEPPE SORANI

Era nato ad Acilia (Roma), il 29 dicembre 1929; la sua famiglia ebrea comprendeva papà Garibaldo, la mamma Emma, 5 fratelli e 2 sorelle. Trascorse l’infanzia ad Acilia ove il papà era il medico della locale stazione sanitaria, molto benvoluto.

Era ragazzo di 14-15 al tempo delle leggi razziali antiebraiche e dell’occupazione nazista di Roma. Sempre conservò uno stretto riserbo su quel tempo. Solo una volta accettò di alzare il velo del riserbo su quanto avvenne.

Tutti ci siamo nascosti come potevamo, nei paesi, nei casolari – raccontò -. Il papà era medico condotto e la nostra famiglia viveva, benvoluta, alla stazione sanitaria di Acilia. Mamma, Emma, era morta qualche anno prima per le angustie delle leggi razziali del 1938. Io ero un ragazzo di 14 anni e mio fratello Giovanni ne aveva 16. In un primo tempo, papà ci ha nascosti presso qualche contadino che ci conosceva. Dopo lo sbarco di Anzio del 22 gennaio 1944, siamo venuti a Roma, in un appartamentino in via Giovanni Miani, dalle parti di Porta Ostiense, che i miei avevano in affitto; qui siamo rimasti nascosti solo noi due. Papà trovò protezione all'ospedale Fatebenefratelli dell'isola Tiberina, sotto altro nome, alternandosi nel ruolo di medico e in quello di ammalato, a secondo dell'opportunità. Poi, quando c'è stato lo sfollamento di Acilia ed era troppo pericoloso per noi due rimanere nell'appartamento di via Miani, io e Giovanni siamo stati portati all'Istituto di Don Orione di Via Induno, a Trastevere, come orfani sfollati, senza dire niente della nostra reatà ebraica. Fino all'arrivo degli americani e alla liberazione di Roma, il 4 giugno del 1944, sono rimasto a Trastevere”.

E poi un particolare mi ha molto impressionato di quanto mi raccontò Don Giuseppe.

“Ricordo che in quei giorni, dopo l’uscita dei tedeschi da Roma, Don Piccinini mi ha affidato la cura di un ufficiale nazista, ora nascosto lì. Mi ha detto: “Non sappiamo come fare per questo povero nazista”. Era nascosto dietro una tenda e io gli portavo da mangiare. Così per un mese o due, mi pare, fin che passò la tempesta, perché i partigiani avrebbero ammazzati tutti i tedeschi, come reazione. Mi fece impressione che quell'ufficiale fosse ancora convinto della giustezza dell'ideologia nazista; era ancora convinto che gli ebrei dovessero essere tutti fulminati”.

Questo episodio di lui, ebreo, che portava da mangiare a un ufficiale nazista fanatico fu un fatto forte, una parabola che segnò profondamente la sua vita. Lì imparò cosa significano le parole dialogo, rispetto dell’uomo, accettazione delle diversità. Lì imparò, alla scuola di Don Orione e degli orionini, che non altro odio vince l’odio, ma la carità e la verità vincono l’odio. Visse il resto dei suoi anni per togliere il velo delle idee e delle ostilità che separano uomini da uomini e anche credenti da credenti.

Due anni dopo il termine della seconda guerra mondiale, nel 1947, entrò nella Congregazione, emise i voti religiosi nel 1949 e nel 1958 fu ordinato sacerdote orionino. Fu uomo di grande religiosità e cultura, per 12 anni consigliere generale della Congregazione, un appassionato promotore dell’ecumenismo e, in particolare del dialogo ebraico-cristiano. Morì il 19 settembre 2018. 

 

LE MOTIVAZIONI DELL’AIUTO AGLI EBREI E AD OGNI VITA IN PERICOLO

Le notizie raccolte con ricerca accurata, ma non esaustiva, ci danno la misura di come l’aiuto agli Ebrei durante il tempo dello sterminio costituisca una pagina importante e benedetta della vita della Piccola Opera della Divina Provvidenza di Don Orione. Ma giova riflettere sulle motivazioni che hanno animato un tale impegno rischioso, nascosto e sacrificato. Queste vanno oltre la realtà storica concreta e sono un valore culturale per l’oggi e per un domani più umano.

La prima motivazione è il senso umanitario risvegliato nel momento che si vedono persone in pericolo di vita, bisognose di aiuto, di rifugio, di affetto. Tali erano gli Ebrei quando si scatenò la tempesta omicida contro di loro. Tali erano i partigiani che conducevano una resistenza nascosta ed erano ricercati come criminali. In pericolo di vita, poi, furono anche gli esponenti del fascismo e i soldati sbandati dell’esercito tedesco, contro i quali si scatenarono vendette omicide. La vita è sacra, la vita di tutti, la vita senza aggettivi (italiano o tedesco, fascista o comunista, nascente o terminale, la vita in pericolo va sempre aiutata.

La seconda motivazione fu visione e la pratica della carità cristiana inculcata da Don Orione che ripeteva, tanto per ricordare una frase molto nota, “la carità di Gesù Cristo non serra porte; alla porta del Piccolo Cottolengo non si domanda a chi viene donde venga, se abbia una fede o se abbia un nome, ma solo se abbia un dolore! Siamo tutti figli di Dio, tutti fratelli”.[18] Don Orione morì all’inizio del 1940, ma fu spiritualmente istintivo per gli Orionini rivolgere, nel momento del bisogno, la loro accoglienza e le loro cure agli Ebrei minacciati di morte.

La terza motivazione è ecclesiale, molto specifica e stimolante. Gli Orionini si misero in moto in aiuto agli Ebrei perché ciò era voluto dal Papa ed erano impegnati attivamente i Vescovi.

È noto come Pio XII e numerosi Vescovi italiani durante l’occupazione nazista hanno attuato molte iniziative di protezione degli ebrei. Einstein, già nel 1940, riconobbe: “Soltanto la Chiesa Cattolica si oppose alla campagna di Hitler”. Lo storico e diplomatico Emilio Pinchas Lapide ha scritto che la "La Santa Sede, i Nunzi e la Chiesa cattolica hanno salvato da morte certa tra i 700.000 e gli 860.000 ebrei". Golda Meir, a lungo ministro e capo del governo israeliano, alla morte di Pio XII, affermò: "Quando il terribile martirio si abbatté sul nostro popolo, la voce del Papa si levò per le vittime. La vita del nostro tempo fu arricchita da una voce che chiaramente parlò delle grandi verità morali al di sopra del tumulto quotidiano".[19] L’opera di ecclesiastici come Montini e Tardini in Vaticano, il Card. Schuster a Milano, Fossati a Torino, Boetto e Lercaro a Genova ha scritto nobili pagine di storia, a fatica tratte dall’oblio in cui la necessaria discrezione le aveva custodite.

Gli Orionini che professano un quarto voto di “speciale fedeltà al Papa” e sono animati da un “sensus Ecclesiae” che li spinge a realizzare “non solo i comandi ma anche i desideri dei Pastori della Chiesa” e a “dare consolazioni ai Vescovi”, si attivarono come meglio poterono in soccorso degli Ebrei condividendo pienamente le indicazioni di Pio XII e le richieste di collaborazione dei Vescovi nelle città ove operavano. Cioè, per loro, oltre che un fatto umanitario e di carità evangelica, l’aiuto agli Ebrei fu un’espressione di amore e di unità ecclesiale in salvezza dei “fratelli maggiori”.
 

Mantenere viva la memoria di quanto è accaduto è un'esigenza non solo storica, ma morale – ha affermato più volte Papa Giovanni Paolo II -. Non bisogna dimenticare! Non c'è futuro senza memoria. Non c'è pace senza memoria!".[20]
Sono passati 60 anni da quegli eventi terribili. È giusto che la memoria dell’azione della Chiesa[21] e degli Orionini, nel loro piccolo e generoso contributo, possa educare ad atteggiamenti e valori indispensabili per un futuro di fraternità e di pace.

 

--------------------------------------------------------------------

[1] In Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000.

[2] Lettera a Don Dutto 1.3.1939, Scritti 29, 249.

[3] Scritti 67, 62.

[4] Summarium ex processu,  735.

[5] Summarium ex processu,,  490. «In Genova si fanno lavori per più di mezzo milione. Ultimamente l’ebreo Gonzalez, il Direttore generale della Società Edison…», Riunioni 1937, p.185.

[6] Summarium ex processu,  491.

[7]Summarium ex processu,  492.

[8] Buona notte del 9 Gennaio 1939, Parola X, 35.

[9] Discorso del 17 Gennaio 1939, Parola X, 39. Dal Diario dell’Istituto di Via Sette Sale, Roma: «10 Martedì: Nel pomeriggio Don Orione accompagnato da Malcovati si porta in casa dell’ebreo che deve battezzare. È uno dei più ricchi di Roma, ha nome Coen, più volte milionario. È amico del Ministro Lantini e Don Orione, per invito di quest’ultimo, si è portato a Roma per battezzarlo. Ci raccontò come dopo la cerimonia si sia messo a piangere dalla commozione».

[10] Don Marabotto prese sotto la sua protezione, tramite Don Jan Zieja, cappellano dell’Armata Nazionale Polacca, due ragazzi ebrei che correvano il rischio di morte e li nascose nella casa di Lazniew. Cfr Luciana Frassati Gawronski, Il destino passa per Varsavia, Milano 1985. e Anzelm Weiss, Don Orione incontra la Polonia, in Aa. Vv., Don Orione e il Novecento, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003, p. 172.

[11] F. Peloso, Francesco Drzewiecki. N. 22666: un prete nel Lager, Borla, Roma, 1999, p. 61, n.3. Parola di Don Orione 18.9.1939, XI p.131. Cfr. anche Scritti di Don Orione 78, p.130-131.

[12] Flavio Peloso - Giovanni Marchi, Orionini in aiuto agli Ebrei negli anni dello sterminio, “Messaggi di Don Orione” 35(2003), n. 112/3, 75-106.

[13] Arrigo Minerbi (Ferrara 1881 – Padova 1960) fu uno dei più grandi scultori del Novecento. Espresse una scultura dello spirito: qualcosa di addolcito e di musicale nella materia, un virtuosismo tecnico notevole, l’abitudine a presentare con cura i volumi. Le sue opere sono presenti in piazze, chiese e musei di tante città italiane. Il suo Don Orione morente è considerato uno dei suoi massimi capolavori, unitamente alla statua di Maria Salus Populi Romani, posta sulla collina di Monte Mario benedicente su Roma.

[14] Cfr Serafino Cavazza, in Aa. Vv., In memoria di Don Piccinini. A cura di Don Giuseppe Zambarbieri, Edizioni Don Orione, Tortona 1982, p. 206.

[15] G. Piccinini, Roma tenne il respiro, Ed. Orionea, Palermo, 1955, p. 125.

[16] Testimonianza di Don Ignazio Cavarretta.

[17] Questo bassorilievo della medaglia è conservato nella Curia degli Orionini a Roma.

[18] Scritti 114, 285.

[19] Alla fine della II guerra mondiale, tutte le grandi organizzazioni ebraiche del mondo, i rabbini capi di Gerusalemme, di New York, di Danimarca, della Bulgaria, della Romania, di Roma, e migliaia di ebrei scampati alla persecuzione hanno manifestato il loro apprezzamento e la loro grandissima stima per quello che Pio XII aveva fatto in loro favore.

[20] Giovanni Paolo II, Tertio millennio adveniente, 37.

[21] Il tema è tornato di attualità per le polemiche lanciate recentemente sui “silenzi di Pio XII” e della Chiesa cattolica. Ha parlato con i fatti, certo insufficienti di fronte all’immane catastrofe e dolore del popolo ebraico. Sull’argomento si veda: Pierre Blet, Pio 12° e la seconda guerra mondiale negli archivi vaticani, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999; Andrea Tornielli, Pio XII: il Papa degli Ebrei, Piemme, Casale Monferrato, 2001; Rosario F. Esposito, Processo al Vicario: Pio XII e gli ebrei secondo la testimonianza della storia, SAIE, Torino, 1965; Margherita Marchione e altri, Pio XII e gli ebrei, Piemme, Casale Monferrato, 2002; Antonio Gaspari, Nascosti in convento : incredibili storie di ebrei salvati dalla deportazione (1943-45), Ancora, Milano, 1999.

Lascia un commento
Code Image - Please contact webmaster if you have problems seeing this image code  Refresh Ricarica immagine

Salva il commento