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Messaggi Don Orione
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Nella foto: Benedetto XVI con un ragazzo dell'Istituto Don Orione.
Pubblicato in: Atti e Comunicazioni”, n. 219, 22006, p.3-24.

Lettera Circolare del 26 aprile 2006.
La relazione personale con Dio fonte di identità e fedeltà.


IO  DEBOLE  SERVITORE  DI  DIO

La relazione personale con Dio fonte di identità e fedeltà

26 aprile 2006

Madonna del Buon Consiglio

            Carissimi Confratelli.

            Sono tornato da poco dalla visita canonica in America Latina. E’ stato un meraviglioso contatto con la congregazione. Quanta grazia di Dio ho incontrato! Quanta bontà e che grande fantasia della carità si diffondono da tanti confratelli e dalle nostre comunità! Ci siamo confortati nella volontà di essere al meglio di quello che siamo: figli di un santo, privilegiati dell’amore di Dio, aiuto per tanti che necessitano di beni e del “sommo ed eterno Bene”.

Ho incontrato anche miserie, certo. Qualcosa abbiamo cercato insieme di superare. Il resto, “pericolanti debolezze e miserie”, come diceva Don Orione, bisogna “porle sull’altare perché in Dio diventino le forze di Dio e grandezza di Dio”.[1]

Ritornato a Roma, mi sono ritrovato con i Consiglieri generali reduci dalla visita canonica e – un po’ come accadde agli apostoli dopo l’esperienza missionaria - ci siamo raccontati quanto visto e vissuto, per lodare il Signore e per fare qualche considerazione.

Ammirati per le tante attività di bene, anche in noi è sorto un pensiero che fu già di Don Orione il quale, dopo aver enumerato le imprese di bene e lodato i meriti dei suoi figlioli, si espresse così: “Tuttavia, parlandovi col cuore alla mano, vi confesso che non posso difendermi dal doloroso pensiero e dal timore che questa vantata attività dei Figli della Divina Provvidenza, questo zelo che fino ad ora fu inaccessibile ad ogni scoraggiamento, questo caldo entusiasmo fino a qui sostenuto da continui felici successi, abbia a venir meno ove non siano fecondati, purificati e santificati da una vera e soda pietà”.[2] E’ il pensiero e il timore di un padre cui sta a cuore il vero e duraturo bene dei figli. 

Di fragilità e di “pericolanti debolezze” ha parlato anche l’ultimo Capitolo generale ricercando indicazioni “a sostegno dell’io debole”.

 

Il Capitolo generale e l’io debole

Il Capitolo generale ha dedicato molta attenzione all’“io debole” e alle condizioni di fragilità in cui oggi ci troviamo a vivere la nostra vocazione religiosa. Ne è segno la particolare debolezza dei giovani religiosi (pochi aspiranti giungono al noviziato, 1 su 2 di quanti professano non giungono alla professione perpetua) e delle non poche defezioni di religiosi perpetui (1 su 100 nostri religiosi, ogni anno, abbandona la vocazione).[3]

All’inizio del terzo millennio, siamo immersi in una cultura debole che porta a relazioni deboli, a progetti deboli e a fedeltà debole.

“La cultura postmoderna – leggiamo nel documento del CG 12 - ha tolto all’individuo i punti di riferimento oggettivi e i criteri etici sicuri e validi per tutti. La conseguenza è quella di una nuova fragilità dell’individuo. L’identità soggettiva, essendo frutto di una visione di sé frammentaria, entra così in crisi.

Un’identità incerta può spingere, specie nei momenti di difficoltà, verso un’autorealizzazione malintesa, con bisogno estremo di risultati positivi e dell’approvazione da parte degli altri, con esagerata paura del fallimento e con depressione per insuccessi (VFC 36).

Risulta sempre più difficile, specialmente ai giovani, prendere impegni definitivi quali quello del matrimonio e della vita consacrata.

Tali inconsistenze e fragilità di personalità condizionano la vita spirituale nel suo insieme: risulta più difficile stabilire relazioni con Dio nella preghiera e con il fratello nella vita comunitaria e nell’apostolato.

A volte si ricorre a forme di spiritualità emotivamente attraenti, anche fuori dalla Congregazione, che però non impegnano a fondo e totalmente la persona”.

Questo è il quadro, realistico, solo accennato dal documento del Capitolo. Ma “siamo Figli della Divina Provvidenza” e sappiamo che la debolezza, nell’esperienza cristiana, non è solo e sempre negativa. Talvolta è premessa, e anzi condizione, di nuova e più autentica fortezza. San Paolo quasi fa un “elogio della debolezza”. Arriva ad affermare: “Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo”, “Quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12, 9-10).

A quali condizioni la debolezza può trasformarsi in chance di vita, in occasione di crescita?

 

 Il beato Francesco Drzewiecki e l’io forte nei lager

             Parrà strano, ma prendo un primo spunto per capire quali sono i cardini di un io forte dalla vicenda del nostro beato Francesco Drzewiecki e dei suoi compagni martiri uccisi nei lager. E’ stato beatificato, assieme ad altri 107 compagni da Giovanni Paolo II, a Varsavia il 13 giugno 1999. La loro memoria liturgica è fissata al 12 giugno.[4]

             Come postulatore mi occupai della causa di canonizzazione. Lessi molto sulla persecuzione nazista contro il clero cattolico polacco e sulle condizioni di vita nel lager di Dachau. Ebbi tra le mani un Diario del nostro Drzewiecki e le testimonianze di molti sacerdoti deportati; ascoltai a più riprese i ricordi vivi del confratello Joseph Kubicki.[5]

             Ricordo che uno storico laico, Lucio Monaco, a un convegno su “Religiosi nei lager”, fece una interessante osservazione: "nel leggere la memorialistica sui sacerdoti nei lager, sorprende constatare la loro forte tenuta di identità sacerdotale, mentre sappiamo che normalmente il lager sconvolgeva i connotati o anche distruggeva del tutto l'identità delle persone".[6] Questi sacerdoti avevano un io forte, resistente. Lucio Monaco indicò alcuni fattori comportamentali che potevano aiutare a capire il perché della “forte tenuta di identità” dei sacerdoti e religiosi al lager di Dachau.[7] Trovai quell’analisi pienamente confermata nelle parole e nei comportamenti del beato Francesco.

             Quali erano questi fattori di tenuta dell’identità?

1) La vita spirituale: credevano in Dio, avevano fede, pregavano, celebravano e facevano la comunione di nascosto, si tenevano anche piccole conferenze spirituali tra di loro.

2) La vita comunitaria: i tedeschi relegarono i preti in due grosse baracche separate con una rete per isolarli dagli altri internati e loro continuarono al lager, come poterono, una specie di vita comunitaria con orario, fraternità, aiuto reciproco.

3) Lo zelo apostolico: pur in quelle condizioni tutti cercavano di "fare i preti" approfittando di briciole di tempo e di contatti con gli altri internati; confessavano, consolavano, parlavano di Dio; con grande rischio celebravano e distribuivano la comunione nei modi più impensabili; aiutavano.

 

             Questi tre fattori comportamentali fortificanti sono stati messi a prova e verificati nei lager. Sono emersi quali elementi costitutivi dell’identità sacerdotale-religiosa, quasi come in un esperimento di laboratorio, nelle condizioni estreme di disgregazione della personalità del lager di Dachau[8]

             Ma questi tre fattori fanno parte della normale vitalità di una vita sacerdotale e religiosa! Proprio queste medesime tre indicazioni sono presenti nella decisione n.9 del nostro recente Capitolo generale, al termine della sua realistica considerazione sulla cultura debole e sull’io debole: “occorre favorire la ripresa dell’intimità con Dio, del senso del valore di appartenenza comunitaria e dell’apertura apostolica”.

Queste tre indicazioni – “amore di Dio, vita fraterna in comunità e passione apostolica” - connotano la tappa di vita 2004-2010 della nostra Congregazione. In particolare, sulla “fedeltà creativa alla nostra vocazione nell’amore di Dio” è impostato il cammino di formazione permanente di quest’anno.[9]

“Le note di debolezza e di frammentarietà dell’io – afferma ancora il Capitolo, a p.93 - mettono ancor più in evidenza la necessità di trovare l’unità interiore, mettendo al centro Cristo, cuore dell’uomo e di tutta la spiritualità cristiana.[10] Un aiuto prezioso per ritrovare l’unità interiore è offerto dal progetto personale di vita, alla cui base sta sempre l’umiltà, la docilità allo Spirito e l’affidamento alla guida spirituale”.

In questa prospettiva, mi pare utile offrire qualche ulteriore spunto di vita e di riflessione.

 

“Io debole servitore di Dio

Mentre annotavo qualche pensiero da comunicare sul tema dell’io debole - io forte in Dio, mi è venuta alla mente l’autodefinizione con cui Benedetto XVI si è presentato alla Chiesa e al mondo nella celebrazione di inizio del suo pontificato: “In questo momento, io debole servitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capacità umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di farlo?”.

Il Papa non esita a riconoscersi “io debole”, però aggiungendovi subito “servitore di Dio”.

Le parole del Papa sono commoventi e vere. Le comprendiamo subito. Tutti noi abbiamo sperimentato sentimenti di turbamento per la fragilità personale di fronte a compiti inauditi, che ci sorpassano. Sono le parole emozionate che anche noi abbiamo dette o ascoltate nel giorno della professione religiosa o dell’ordinazione sacerdotale o in altri momenti particolarmente rilevanti della nostra vita come religiosi.

“In questo momento, io debole servitore di Dio devo assumere questo compito inaudito, che realmente supera ogni capacità umana. Come posso fare questo? Come sarò in grado di farlo?”.[11]

Benedetto XVI risponde rivelando la sorgente della forza per il suo “io debole”: “Voi tutti, cari amici, avete appena invocato l'intera schiera dei santi, rappresentata da alcuni dei grandi nomi della storia di Dio con gli uomini. In tal modo, anche in me si ravviva questa consapevolezza: non sono solo. Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo”.

L’io solo è debole; l’io in comunone è reso forte. “Noi tutti siamo la comunità dei santi – prosegue il Papa -, noi battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, noi che viviamo del dono della carne e del sangue di Cristo, per mezzo del quale egli ci vuole trasformare e renderci simili a se medesimo”.[12]

Cari fratelli, non è la debolezza delle nostre forze che deve metterci paura, ma la solitudine del nostro io senza la comunione con Dio e con i fratelli.

“Io debole servitore di Dio”: potevano apparire parole emotive, giustificate dalla circostanza eccezionale di quel primo inizio del pontificato, ma Papa Benedetto è ritornato ad esprimere il medesimo atteggiamento vitale dopo pochi giorni, in altra celebrazione di grande ufficialità, in passato chiamata intronizzazione, nella Basilica di San Giovanni in Laterano.  “Colui che è il titolare del ministero petrino – disse durante l’omelia - deve avere la consapevolezza di essere un uomo fragile e debole - come sono fragili e deboli le sue proprie forze - costantemente bisognoso di purificazione e di conversione. Ma egli può anche avere la consapevolezza che dal Signore gli viene la forza per confermare i suoi fratelli nella fede e tenerli uniti nella confessione del Cristo crocifisso e risorto”.[13]

 

 Fondati sulla roccia

Erano passati solo due mesi dalla elezione quando, ancora una volta, Benedetto XVI ha comunicato simile pensiero di uomo “debole ma forte in Cristo” proprio a noi Orionini, nel discorso fatto il 28 giugno 2005, intervenendo alla nostra Festa del Papa. Commentò il "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa" (Mt 16,18) e disse: “Con queste parole Gesù si rivolge a Pietro dopo la sua professione di fede. È lo stesso discepolo che poi lo rinnegherà. Perché allora viene definito "roccia"? Non certo per la sua personale solidità. "Roccia" è piuttosto nomen officii: cioè titolo non di merito, ma di servizio, che definisce una chiamata e un incarico di origine divina, cui nessuno è abilitato semplicemente in virtù del proprio carattere e delle proprie forze. Pietro, che titubante affonda nelle acque del Lago di Tiberiade, diventa la roccia su cui il divin Maestro poggia la sua Chiesa”. Proprio a conferma della consapevolezza del bisogno dell’aiuto di Dio, con semplicità, Benedetto XVI concluse: “Il Papa vi è grato per le vostre preghiere, e ne ha bisogno”. [14]

Credo che guardare al Papa e ascoltare le sue parole faccia bene e sia illuminante per tutti noi. Pietro, il Papa, ciascuno di noi, siamo roccia non per le nostre forze, ma in Cristo. Che bello ora vedere lo spettacolo di un “debole servitore di Dio”[15] che evangelizza e rassicura tutti noi, deboli e immersi in una cultura debole, chiamati ad un’ardua vocazione, “all’alto privilegio di servire Cristo nei poveri”![16]

 “Questo tesoro, l’abbiamo in vasi di creta - ci ricorda San Paolo -, affinché appaia che questa potenza straordinaria proviene da Dio e non da noi.” (2 Cor 4,7). La consapevolezza della debolezza personale, e anche congregazionale, è utile e fruttuosa quando porta all’unica grande decisione a sostegno dell’io debole indicata da Gesù: “Rimanete in me come io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso, se non rimane nella vite, così nemmeno voi, se non rimanete in me” (Gv 15, 4).

Il nostro Capitolo generale del 2004 ci ha chiesto di aprire gli occhi e il cuore e di prendere questa decisione: “Di fronte alla fragilità della persona, va riscoperta una  spiritualità fortemente incentrata su Gesù Cristo – Uomo nuovo (Ef 2,15)”.[17] Occorre fondarci sulla “roccia”. Don Orione con il suo impeto di santo direbbe: “Viviamo in Gesù… viviamo di Gesù… viviamo per Gesù! Tutti e tutto per Gesù”.[18]

 

Sacco vuoto non sta in piedi

Capacem Dei, quidquid Deo minus est non implebit” – osservava San Bernardo[19] -, chi può contenere Dio, non può essere riempito da qualunque cosa che sia meno di Dio.

Ricorro ancora a Benedetto XVI che spiega l’origine di questo insopprimibile bisogno di Dio: “Origene, vede la differenza fondamentale tra l'uomo e gli altri animali nel fatto che l'uomo è capace di conoscere Dio, il suo Creatore, che l'uomo è capace della verità, capace di una conoscenza che diventa relazione, amicizia. È importante, nel nostro tempo, che noi non dimentichiamo Dio, insieme con tutte le altre conoscenze che abbiamo acquisito nel frattempo, e sono tante! Esse diventano tutte problematiche, a volte pericolose, se manca la conoscenza fondamentale che dà senso e orientamento a tutto: la conoscenza di Dio Creatore”.[20]

Capacem Dei, quidquid Deo minus est non implebit”. Potrebbe essere tradotto con il proverbio popolare: “Sacco vuoto non sta in piedi”. Sacco vuoto di Dio non sta in piedi. Eppure, distratti e confusi, cerchiamo di riempirci e di “sostenerci” di altro. «Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te», è debole finché non si conforta in Dio.

Sacco vuoto non sta in piedi! “Può il mondo riempire il cuore dell'uomo? Ci vuol altro che il mondo per accontentare l'uomo! Ci vuole un'altra cosa dunque, un bene che non sia terreno: ci vuole Dio! Solo Dio! Dio solo basta. Chi ama Dio, vive di Dio, e gode sempre!”.[21]

Non riempirci d’altro che non sia Dio e di Dio. “Riempirci il petto e le vene della carità di Gesù Cristo”.[22]Nemo dat quod non habet: è indispensabile che la virtù e l’onestà l’abbiamo noi. Un sacco vuoto, non dà grano; botte piena d’acqua, non dà vino”.[23]

 

Una religiosità umanitaria

Noi religiosi, a volte, corriamo il rischio di vivere una “religiosità umanitaria”, fondamentalmente centrata su sé stessi. Restano i valori, i riti e le opere religiose – sì anche le opere! – ma quasi sparisce il rapporto personale con Dio, in Gesù, la vita nello Spirito. E’ una religiosità che potenzia il nostro protagonismo più che la relazione con Dio: ci serviamo di Dio (“Gott mit uns!”) più che servire Dio, accogliere, amare e fare la volontà di Dio, servire i fratelli per amore di Dio.[24] Ma senza l’”acqua viva, di sorgente”, che viene da Dio, senza il “pane vivo disceso dal cielo”, che è Gesù, la nostra vita di consacrati non si alimenta, indebolisce fino all’apatia e alla morte. E anche gli altri avvertono se c’è fuoco, se c’è Dio, se c’è interesse nella nostra vita.[25]

Il protagonismo religioso egocentrico è un errore pratico, più che teorico,[26] in cui possiamo cadere anche noi religiosi, professi e professionisti della vita religiosa. E’ una insidia diffusa, pericolosa, devastante. E’ l’opposto di una vita da “figlio della Divina Provvidenza”. E’ un’insidia alla vita di fede di cui spesso non ci si accorge, perché si insinua sensim sine sensu, inavvertitamente, poco alla volta. E patatrac! Il sale diventa insipido, la luce si spegne, la casa frana su se stessa.

Anche Sant’Agostino, quando fu avanti negli anni, si accorse di essere scivolato in questa insidia e ne individuò la ragione: “Io mi sbagliavo pensando che la fede per cui noi crediamo in Dio non fosse dono di Dio, ma venisse da noi in noi… Io infatti non pensavo che la fede fosse preceduta dalla grazia di Dio...”.[27]

Non basta dire: “io faccio tutto per Dio”. Bisogna vivere in Dio, ricevere da Dio, fare la volontà di Dio. Sant’Agostino diceva di essere passato per questo errore! In questo errore possiamo cadere anche noi quando abbiamo forma religiosa ma poca relazione con Dio.

Si promuove la beneficenza e si ignora la carità[28]è Don Orione che scrive -, si cercano i beni corporei ed intellettuali, l’igiene e la scienza, e si trascura la bontà morale, la vita soprannaturale, la santità, si divinizza l’uomo e si scaccia Dio… Una religione che presso di noi volatilizza in un sentimento indefinito, in un ideale evanescente, in una religiosità umanitaria, senza Credo e senza Chiesa. Ecco la causa causarum di tutti i mali”.[29]

 

Bisogna aver fede!

Se c’è poco “Dio”, poco “Credo”, poca “Chiesa” nella nostra vita di religiosi, i progetti di ri-vitalizzazione, ri-presa, ri-lancio, rin-novamento – termini ricorrenti delle nostre riunioni e assemblee – avranno poco frutto. Facciamo girare il mulino delle parole ma non maciniamo grano, non produciamo pane.

Il grano è la vita di Dio, la grazia di Dio diffusa nei nostri cuori. E’ una grazia cui attingere gratuitamente perché “Deus caritas est”, ci ama gratuitamente, il suo amore “ci è donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente”.[30] Dio si dona, il Credo è trasmesso, la Chiesa è offerta.

Anche a noi, impegnati a sostenere l’io debole, giunge oggi l’impaziente sollecitazione: “Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l'orecchio e venite a me, ascoltate e voi vivrete” (Is 55, 1-3); “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (Gv 6,35). “I ricchi impoveriscono e hanno fame, ma chi cerca il Signore non manca di nulla” (Sal 34,11 e Lc 1,53).

Solo i poveri, i bisognosi, gli umili avvertono con stupore e riconoscenza di essere pre-ceduti, pre-venuti dalla grazia di Dio, come quei poveracci che si ritrovarono al banchetto del re, mentre i ricchi e gli indaffarati nei propri progetti ne rimasero fuori (cf Mt 22, 1-14).

Saremo sufficientemente poveri e disillusi di altre vanità per ricorrere a Dio?

Preparando un ritiro spirituale per i novizi e postulanti di Velletri, mi sono imbattuto in questo testo di San Francesco d’Assisi: “Scongiuro, nella carità che è Dio, che tutti i miei frati predicatori, oratori e lavoratori, sia chierici che laici, cerchino di umiliarsi in tutte le cose, di non gloriarsi, né godere di sé. Né di esaltarsi dentro di sé delle buone parole e delle opere, anzi di nessun bene che Dio dice o fa o opera talora in loro e per mezzo di loro. Lo spirito della carne, infatti, cerca non la religiosità e la santità interiore dello spirito, ma vuole e desidera una religiosità e una santità che appaia al di fuori agli uomini”.[31]

A noi religiosi, il successo personale e i buoni risultati – anche di tipo religioso e apostolico – ma con “poco Dio” fanno più male che bene. Don Orione quasi lo gridò ai suoi chierici e religiosi: “Bisogna aver fede (alza la voce)! Bisogna aver fede!… Pregate, cari miei Chierici! Bisogna pregare! Tanto si vale quanto si prega! Tanto si riesce quanto si prega! E se molte volte avviene che si ottiene senza pregare, l’uomo allora edifica un sepolcro a se stesso. Dice il Tasso:

Non edifica quei che vol gli imperi

su fondamenti fabbricar mondani.

Ma ben move ruine, ond’egli, oppresso,

sol costrutto un sepolcro abbia a se stesso!

(Tasso, Canto I, v. 25… Don Orione lo recita a memoria)

Questi versi del Tasso sono la traduzione del «Nisi Dominus aedificaverit domum, invanum laboraverunt qui aedificant eam». Il vostro primo impegno mettetelo nell’orazione, nella preghiera”, [32] nella vita di Dio, nella vita con Dio.

 

Instaurare omnia in Christo, cominciando da noi

Tradirebbe Don Orione chi ne attenuasse la passione mistica e ascetica per esaltarne la passione apostolica iperattiva.[33] E questo vale anche per noi suoi discepoli.

E’ la carità di Dio, cioè la vita di Dio, che rende attivi (charitas Christi urget nos!), che "ha fame di azione”, che “sa di eterno e di divino".[34]

Instaurare omnia in Christo, sì, ma cominciando da noi, se no, mai rinnoveremo gli altri in Cristo, se prima non avremo rinnovato in lui tutto in noi, ogni cosa di noi, tutto noi!”.[35]

In questa prospettiva, prende senso e urgenza la decisione n.22 del CG 12 che ci chiede di preparare e attuare il progetto personale di vita incentrato sulla relazione con Dio.

         “Dovere e bellezza della nostra vocazione religiosa è “tendere alla perfezione, convinti che ciò significa darsi a Dio sul serio” (Cost 14), per questo siamo “i primi interessati ad una formazione accurata in ogni tappa della vita religiosa” (Cost 82). Ci impegniamo pertanto:

- a mantenerci costantemente docili all'azione santificante dello Spirito;

- a perfezionare diligentemente la nostra cultura spirituale, dottrinale e tecnica;

- a prestare ascolto attento e creativo ai segni dei tempi” (Cost 110).

Convinti che oggi “non progredi, regredi est”, raccogliendo quanto le Costituzioni indicano, per tener viva e operante la tensione alla santità, secondo la misura del dono di Cristo dato a ciascuno (Cfr Ef 4,7), “è necessario che ogni religioso abbia il suo progetto personale di vita, nel quale sia previsto un percorso di crescita a livello umano, spirituale ed apostolico, da concordare con il proprio direttore spirituale e, nel corso della formazione iniziale, con l’équipe formativa”.

Nel progetto personale si abbia particolare riguardo per:

  1. preghiera: “Lo dico d’in ginocchio, e vi supplico di non offendervene, la prima carità dobbiamo farla a noi stessi: dobbiamo pregare di più…”[36] (Don Orione). In armonia con quanto è già indicato dalle Norme 32 e 50, e come segno di voler incrementare efficacemente la dimensione spirituale della Famiglia orionina, ogni religioso dedica quotidianamente un tempo particolare a rinsaldare l’intimità con il suo Signore. Il superiore locale, con il suo esempio, e il provinciale, nel dialogo individuale con i religiosi, insistano perché questo momento diventi stile abituale di vita dell’orionino (Cost, 66).
  2. guida spirituale: Per vivere profondamente la propria consacrazione e per rispondere alle attese del popolo di Dio che ha bisogno di avere guide spirituali idonee, ogni religioso è il primo responsabile della sua preparazione. Per questo, non solo durante gli anni della formazione iniziale, ma anche in seguito, il religioso si fa accompagnare da una guida spirituale[37] con la quale prepara e verifica il suo progetto personale. È compito del superiore provinciale aver cura che nessuno rimanga solo nel suo itinerario spirituale.

 

Né Tabor e né piazza, Betania

Don Roberto Simionato in una sua nota Lettera circolare affermò che oggi la “tentazione del Tabor” non c’è più.[38] Egli intendeva dire che non c’è più tra i religiosi la tentazione di uno spiritualismo disincarnato e disimpegnato. Tutti condividiamo.

Però, come accennato sopra, c’è un’altra tentazione oggi tra i religiosi: la tentazione della piazza, la tentazione delle botteghe del sacro attorno al tempio, la tentazione dei predicatori loquaci, dei moralisti senza amore, della “beneficenza senza carità”, della religiosità con “poco Dio”.

Per noi, la piazza e la strada sono anche il luogo dell’apostolato. Don Orione volle essere “il prete di quelli che non vanno in chiesa” e ci spronò “fuori di sacrestia”. Ma avvertiva: “Attenti, prima di uscire di sacristia, e siate preti anche fuori e così orizzontati e attenti da non perderla tanto di vista, da non ritrovarne più la via”.[39]

Dunque, né spiritualismo senza popolo e né attivismo senza Dio.

Il “luogo” di vita, per noi religiosi, non può essere né il Tabor né la piazza. E’ la casa, la comunità, la famiglia. E’ Betania.

Betania[40] è la casa di una comunità di fratelli – Lazzaro, Marta, Maria - che hanno Gesù per amico, anzi sono proprio identificati per questo: “gli amici di Gesù”. “Gesù voleva loro molto bene” e gli altri se ne rendono conto. Sono personalità forti. Vivono tra loro una comunione dinamica nella diversità delle caratteristiche personali spirituali e pratiche. La loro casa è aperta, è ricca di relazioni e di generosità verso gli altri, ne è segno il fatto che appaiono circondati di “amici” (“molti Giudei erano venuti da Marta e Maria per consolarle”). Presso di loro, a Betania, gli altri sanno che possono incontrare Gesù e ci vanno per questo (“vennero a sapere che Gesù si trovava là e accorsero”).

Le nostre comunità religiose sono Betania?

          Si e no. La Betania del vangelo non aveva l’assillo di un Piccolo Cottolengo e neppure gli orari disturbati di una parrocchia o di una scuola, o le esigenze di un servizio istituzionalizzato sempre più complesso. Però Betania resta il modello cui ispirarci per trovare nuove modalità di vita fraterna nelle diverse situazioni attuali.

          Il Capitolo, soprattutto nelle decisioni 1, 3, 16, 19, ha proposto chiaramente una nuova visione del rapporto comunità-opere. In questa visione-progetto spicca la centralità data alla casa e alla vita fraterna della comunità (“congregavit nos in unum Christi amor”), separata ma non isolata dalle opere, in comunione ma non confusa con le attività che fanno parte integrante (non totalizzante!) della vita religiosa orionina.

          Come a Betania, la vita comunitaria ha una casa, uno stile, dei riti, delle regole, un progetto. Dobbiamo recuperare il modello di Betania (o di famiglia) nel nostro progetto comunitario perché la vita comune sia forte e attraente: “ognuna delle nostre comunità, vivendo in preghiera, nella gioia della comunione fraterna e in alacre servizio, è segno attraente e credibile per quanti vogliono rispondere alla chiamata del Signore. Una comunità bella e forte, dove vive la dolce concordia dei cuori e la pace, non può non essere cara e desiderabile” (Cost 86).

Per superare le debolezze proprie e altrui ci vogliono iniziative, ma è “la comunità a sostegno dell’io debole” (titolo della decisione n. 10) con il suo equilibrio sereno e fruttoso di una ordinata vita fraterna, centrata in Gesù, aperta al servizio dei fratelli più bisognosi.

E’ nella comunità che si integrano progetto personale, progetto comunitario e progetto apostolico. Il “progetto” è sempre di Dio, e in gran parte è già delineato nelle Costituzioni, ma a noi spetta fare un filiale discernimento per conoscerlo e attuarlo nelle situazioni d’oggi.

Riusciremo a fare in modo che la nostra vita religiosa sia Betania e non Tabor individualistico e disincarnato e nemmeno piazza dispersiva e profana?

Solo a Betania, e non su un Tabor (che non c’è) o in una piazza, crescono, si custodiscono e portano frutto i religiosi vivi, oblativi, santi. Religiosi forti.

            “Funiculus triplex difficile rumpitur. Abbiamo avuto qualche esperienza: in certe Case sono pochi, ma uniti, c’è unità di governo c’è unita nella dipendenza c’è unità nella carità; altre Case sono molti fanno poco perché non c’è concordia. Frater qui adiuvatur a fratre quasi civitas firma”.[41]La comunità religiosa è la nostra vera famiglia, il luogo del pieno sviluppo della nostra personalità umana e cristiana, l'ambiente più propizio per l'instaurazione di rapporti di fraterno amore e premessa di fecondità apostolica” (Cost 24).

 

Magnanimità

Un ultimo passaggio di questa riflessione dedicata alla nostra condizione di “deboli servitori di Dio” vorrei dedicarlo alla magnanimità, virtù personale che si sviluppa a partire dalla presenza di Dio nella nostra anima.

Don Orione la presentava come una virtù tipica dello spirito della Congregazione. “Tutti dovete entrare in voi; dovete assorbire e formarvi allo spirito della Congregazione, che è spirito di volontà, di fortezza, di coraggio, di sacrificio, di magnanimità di vera virilità sotto tutti i riguardi. E chi non si sente di essere così, non deve restare da noi, oppure deve piegarsi, plasmarsi e stamparsi così. Esto vir et non frasca. Questo è lo spirito della Congregazione”.[42]

Esto vir et non frasca! Don Orione usò spesso questa espressione che aveva ascoltato da Don Bosco.[43] Si può dire che non passava anno che non la commentasse ai suoi chierici o non la prendesse a tema di una “Buona notte”. Non è facile da tradurre in tutte le lingue, ma a tutti è comprensibile.

Esto vir et non frasca!

  Esto vir nell’amare Dio, Maria SS., il Papa, la Chiesa, la Congregazione.

  Esto vir  nel carattere franco, sincero, leale, cristiano, senza ondeggiamenti, senza sbandare.

  Esto vir nella costanza dei buoni propositi, nella pietà, nella preghiera nello studio - nel vincerti, nel combattere la buona battaglia per mantenerti fedele, per vincere il nemico, per sradicare le passioni, praticare la virtù, disciplinarti con la fatica.

  Esto vir  nel dovere, in tutti i doveri.

  Esto vir e non un automa, non una formalità, non un mercenario, non un impiegato, ma un figlio.

  Esto vir! Ricordati che sei, che devi essere miles Christi, coraggio, generosità, sacrificio, magnanimità.

  Esto vir! Non lasciarti atrofizzare il cuore e la mente.

  Esto vir nelle prove, calmo nei dolori, tribolazioni, nel sostenere la verità

e fare il bene.

  Esto vir nella vocazione e non frasca: esto vir! esto vir! esto vir!”[44]

Don Orione ci indica la fonte spirituale della magnanimità. “Per conquistare a Dio e afferrare gli altri occorre, prima, vivere una vita intensa di Dio in noi stessi, avere dentro di noi una fede dominante, un ideale grande che sia fiamma che ci arda e risplenda - rinunciare a noi stessi per gli altri - ardere la n/ vita in un’idea e in un amore sacro più forte”.[45]

Ai tempi di Don Orione non esisteva l’espressione “io debole”. Egli parlava piuttosto di pusillanimità. Temeva assai la pusillanimità e metteva in guardia da questo difetto. Al caro e stimato Don Montagna, raccomandava: “… Sgranchisciti,[46] e caccia da te non la umiltà, ma la pusillanimità, che non è virtù né merito, ma è difetto. Chi serve a Dio, deve essere forte e superiore alle difficoltà, che, per permissione di Dio, incontriamo sui nostri passi”.[47]

Fu grazie a questa magnanimità – che significa “anima grande” o anche “cuore senza confini perché dilatato dalla carità di Dio” - che Don Orione formò la congregazione. Se si fosse fermato a guardare troppo umanamente ai limiti suoi e altrui… non avrebbe fondato la Piccola Opera e non avrebbe iniziato le Piccole Suore Missionarie della Carità; non avrebbe mandato i primi missionari in America Latina; non avrebbe iniziato il Paverano di Genova o Ognissanti di Roma o il Piccolo Cottolengo di Claypole; non avrebbe fatto la questua delle vocazioni (rivelatasi pesca miracolosa) cavandone buoni religiosi, fior di apostoli e fin santi.

Era magnanimo, aveva Dio, aveva fuoco e metteva fuoco. Frate Ave Maria, giungendo, cieco al Paterno di Tortona rimase impressionato perché Don Orione “sapeva far fuoco anche con legna verde…  che al principio suda, fa fumo, ma alla fine si converte anch’essa in fiamma”.[48]

Don Orione metteva l’asticella alta,[49] con prudenza sì, ma più alta dei propri limiti e di quelli dei suoi figli. Molti suoi figli riuscirono a fare un enorme “salto di santità” e di umanità, che mai avrebbero pensato e tanto meno osato. Riuscivano in imprese sorprendenti che manifestavano l’azione della Divina Provvidenza, che sceglie “ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio, che si manifesta proprio nella debolezza” (1Cor 1, 28-29).

 

Fedeltà

Mi è capitato spesso di citare la frase “non progredi regredi est”. Indica il dinamismo vitale di chi è guidato dall’amore. “Amor est in via” (San Bernardo), l’amore è sempre in cammino. Il nostro progresso non consiste nel presumere di essere arrivati ma nel tendere continuamente alla meta (cfr Fil 3,13).[50]

Ciascuno deve avere a cuore la propria buona salute umana e spirituale, il proprio progresso, e deve adottare i mezzi che la favoriscono. Il progetto personale di vita è finalizzato proprio alla cura di sé in una fedeltà progressiva.

“Occorre prendere una decisione molto ferma di non arrestarsi prima di raggiungere quella meta, avvenga quel che avvenga, succeda quel che succeda, si fatichi quanto bisogna faticare, mormori chi vuol mormorare”.[51] E’ Santa Teresa di Gesù ad esprimere così la necessità di “decisione ferma” nel cammino della consacrazione.

La fedeltà non è ostinazione volontaristica ma è sapersi affidati a Qualcuno, “persuaso che colui che ha iniziato quest'opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù” (Fil 1,6). Fedeltà deriva da fede. Fedele è chi ha fede in Dio. Fedele è chi, avendo incontrato Cristo,  non riesce a concepirsi senza di lui: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,68). Dunque, la fedeltà è grazia che alimenta impegno ascetico ordinato e costante.

Mi piace concludere con due immagini di fedeltà prese dal mondo militare: una di santa Teresa di Gesù e l’altra di Santa Caterina da Siena. Entrambe donne.

“Non sapete che nelle battaglie gli alfieri e i capitani sono obbligati a combattere più degli altri? – osserva Santa Teresa - Un povero soldato va avanti passo passo e, se talvolta si nasconde per non entrare nella mischia, non glielo fanno notare ed egli non perde né l'onore né la vita. L'alfiere, invece, anche se non combatte, porta la bandiera e non deve lasciarsela sfuggire di mano, anche se lo fanno a pezzi. Gli occhi di tutti sono puntati su di lui. Come potete, dunque, pensare che abbia poche sofferenze colui al quale il re assegna questo incarico? Tutto va perso se egli concede qualcosa alla sua debolezza”.[52]

Santa Teresa richiama la nostra particolare responsabilità ecclesiale: siamo alfieri e porta bandiera di Cristo. Gli occhi di tutti sono puntati sull’alfiere, su di noi.

La seconda immagine. “Sto leggendo delle pagine meravigliose della grande Santa e scrittrice Caterina da Siena – scrive Don Orione -: Dice la santa: “Non c’è buono cavaliero se non si prova sul campo della battaglia: così l’anima nostra si debbe provare alla battaglia delle molte tentazioni e tribolazioni; e quando allora si vede fare prova di fortezza e di pazienza, e non volta il capo indietro ... può godere ed esultare”. (Lett. I) Caro Piccinini, sii “buono cavaliero di Cristo”! E sia con te la benedizione e l’amore di Gesù Cristo”.[53]

E chiudo con la preghiera alla Madonna fatta da Don Orione per tutti noi:

“Dacci, Maria, un animo grande,

un cuore grande e magnanimo,

che arrivi a tutti i dolori e a tutte le lagrime.

Fa che tutta la nostra vita sia sacra

a dare Cristo al popolo e il popolo alla Chiesa di Cristo;

arda essa e splenda di Cristo, e in Cristo si consumi”.[54]

 

NOTIZIE DI FAMIGLIA

Il primo quadrimestre del 2006 è stato particolarmente denso di impegni per il Consiglio generale e ricco di eventi per tutta la Famiglia Orionina. Alcune notizie.

 

Visita Canonica

Come programmato, è stata realizzata la Visita canonica in tutte Province e nazioni di America Latina.

Tra gennaio e febbraio ho visitato, assieme a Fr. Jorge Silanes, le nostre comunità di Venezuela e Mexico. Sono considerate ancora missioni in via di consolidamento. Ci sono attività già molto consistenti pur con esiguità di numero di religiosi.

Durante tutta la quaresima e fino dopo Pasqua (marzo-aprile), tutti noi del Consiglio generale abbiamo fatto la visita canonica nelle Province N. S. de la Guardia (Buenos Aires), N. S. de Fatima (Brasilia), N. S. da Anunciaçao (Sao Paulo) e nella Vice-Provincia N. S. del Carmen (Santiago de Chile). Abbiamo avuto modo di partecipare agli incontri dei direttori, previsti in ciascuna provincia a marzo. Ho dedicato alcuni giorni a ogni Paese, visitando sempre la sede provinciale e alcune case, ho incontrato un buon numero di Confratelli.

Ringrazio di cuore tutti i confratelli per la calorosa e fraterna accoglienza riservata a me, ai Consiglieri generali e ai Con-visitatori (P. Eldo Musso, P. Pablo Salvatierra, Don Lucio Felici, Pe. José Deboita, Don Alessio Cappelli). La vostra amabilità premurosa ha reso meno pesante la fatica degli impegni e più fruttuoso l’incontro. Deo gratias!

 

Incontro con i Consigli provinciali di America Latina

La Visita canonica aveva avuto come preludio l’incontro con i Consigli provinciali a Montevideo (Florida, 1-4 marzo). Sono stati quattro giorni di conoscenza fraterna, di formazione alla responsabilità di governo provinciale, di condivisione e coordinamento degli impegni. La piena sintonia tra governo generale e governi provinciali, aperta e cordiale è, in questo momento, uno dei fattori di fiducia e di impegno nel guardare al futuro.

 

L’enciclica “Deus caritas est”

L’enciclica è un grande dono di Benedetto XVI alla Chiesa e a tutta la Famiglia umana, ma mi pare sia da mettere anche tra le notizie di famiglia.

Penso che tutti l’abbiamo letta e presentata nelle nostre case e negli ambienti di apostolato. La seconda parte tratta dell’esercizio concreto della carità verso il prossimo e tocca le ragioni e i dinamismi tipici del nostro carisma. La carità di Dio spiega la carità verso il prossimo  e “le ingenti iniziative di promozione umana e di formazione cristiana, destinate innanzitutto ai poveri” – afferma il Santo Padre – e, a sua volta, la carità verso il prossimo annuncia e in qualche modo spiega la carità di Dio. E’ la convinzione e la via apostolica trasmessaci da Don Orione che Giovanni Paolo II, nel proclamarlo santo, ha definito “lo stratega della carità”.

La nostra riconoscenza al Papa, come cristiani e come orionini, è tutta speciale perché, al n° 40 dell’enciclica, Papa Benedetto XVI ha voluto includere nella breve lista dei Santi “modelli insigni di carità sociale per tutti gli uomini di buona volontà” anche il nostro fondatore San Luigi Orione. E’ quasi una seconda canonizzazione.

 

Don Orione è arrivato in Corea

L’inizio della presenza della “Piccola Opera della Divina Provvidenza” in Corea del Sud è avvenuto il 21 aprile scorso con l’arrivo a Seoul di P. Luciano Felloni, argentino, e di P. Bernardo Seo Yong-Tae, coreano.

E’ un inizio umile, con due “esploratori”, per rispondere al richiamo del vescovo di Uijeongbu, Mons. Joseph Lee: “Come Gesù anch’io vi dico: Venite e vedete, inseritevi, conoscete, offrite quello che può essere secondo il vostro carisma e il bisogno della gente”. Uijeongbu è diocesi nuova, con tanti bisogni, vicino al confine con la Corea del Nord, è importante porvi dei segni di carità.

Sono in contatto frequente con i due Confratelli che sono arrivati là con la loro sola valigia, a mani nude e cuore aperto, e una Famiglia religiosa alle spalle. Affetto, auguri e preghiere per i nostri due Confratelli in terra coreana.

 

Laici missionari

Dopo l’appello missionario, numerosi laici hanno risposto e si sono messi a disposizioni per andare in nostre missioni per un periodo di tempo più o meno prolungato. I primi hanno cominciato a partire. Coordinatore è Don Alessio Capelli, ma ci interessiamo un poco tutti noi del Consiglio. Fate conoscere e diffondete l’Appello missionario.

La maturità vocazionale del Movimento Laicale Orionino si manifesta anche nel fatto di esprime alcuni missionari ad gentes.

 

Revisione delle giurisdizioni

Il Capitolo generale, con la decisione n.28, ha chiesto di operare una “Revisione delle giurisdizioni” e “dà mandato al Direttore generale e al Consiglio” per realizzarla. E’ un impegno molto importante per governare l’evoluzione reale della Congregazione che in alcuni posti cresce, in altri cala, in altri nasce.

Fino ad ora la decisione delle giurisdizioni ha riguardato l’Uruguay che, dopo un processo di discernimento, dal 1° gennaio 2006, forma parte integrante della Provincia N. S. de la Guardia (con Argentina, Paraguay e Mexico).

Ora si è avviato un processo di revisione delle tre Province italiane. C’è stato un incontro di discernimento e programmazione il 10 gennaio 2006. Il tema è tanto complesso e delicato, ma la serenità e la buona comunione che si è instaurata nell’affrontarlo per la prima volta con responsabilità di governo ci fa ben sperare in un buon proseguimento per il bene di religiosi, comunità e opere nel prossimo futuro. Altrove è riportata la lettera che fissa calendario e obiettivi di tale revisione.[55]

Un altro importante capitolo della revisione delle giurisdizioni riguarda le presenze congregazionali di lingua inglese, in nazioni con pochi religiosi e lontane fra loro: sia quelle in calo di religiosi (USA e UK-Eire) e sia quelle missionarie (Kenya, Giordania, Filippine, India e ora anche Corea). Tutte queste comunità hanno bisogno di essere bene accompagnate e aiutate dentro una appartenenza congregazionale più grande che permetta sviluppo, unità e interscambio. Anche in questo caso è stato elaborato un calendario di studio in vista della costituzione di una nuova circoscrizione, la Delegazione Missionaria di lingua inglese.[56]

 

Corsi di formazione permanente

Il primo corso di formazione permanente di questo sessennio si terrà prossimamente a Montebello della Battaglia, dal 4 maggio al 2 giugno 2006. Il corso di Montebello ha la caratteristica di essere “internazionale” e “sui luoghi di Don Orione”.

Il Capitolo generale, alla mozione n.22, definisce questi corsi “consistenti nei contenuti e nella durata, includono la dimensione spirituale, orionina e umana. Sono guidati da persone esperte nei vari settori che accompagnano i religiosi in un autentico processo di revisione di vita e in un profondo discernimento, per vivere integralmente la loro vocazione. Il superiore provinciale ne verifica l’attuazione”. Ogni Provincia ha fatto la propria programmazione, ben conoscendo che il Capitolo attribuisce molta importanza al frutto di questi corsi da vivere con lo spirito di un “noviziato di un mese”.

 

La Festa del Papa

È una bella tradizione della nostra Famiglia intesa come segno concreto di attaccamento al “dolce Cristo in terra”, da celebrarsi con la ricorrenza dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, il 29 giugno. Il tema della festa di quest’anno sarà: Tanti cuori attorno al Papa evangelizzatore della vita.

Anche quest’anno la manifestazione principale si tiene a Roma, con manifestazione-spettacolo, udienza e Messa del Papa. Teniamo conto di questa ricorrenza annuale quando si programmano visite a Roma dall’Italia e da altre nazioni per farle coincidere con questa data.

Ma la Festa del Papa è da celebrare in tutti i Paesi e le città ove ci sono comunità e opere orionine, attorno al Nunzio Apostolico o al Vescovo se possibile. La Festa comporta sempre una celebrazione liturgica ben curata e possibilmente anche una manifestazione gioiosa che dia modo di presentare le “opere” e le “persone” delle nostre attività di bene: sono queste il vero omaggio al Papa, la nostra “apologia”; sono un modo per dire alla gente: “ecco, così la Chiesa vi è vicina”.

 

Comunione di affetto e di preghiera

            Raccomando alle preghiere quanti, in questi ultimi mesi, sono stati visitati da sorella morte, precedendoci nella casa del Padre.

I Confratelli: Don Sergio Tombari, uomo discreto, fratello buono, religioso fedele; Don Francesco Melli che ha passato tutta la sua vita nel mondo della scuola, tra "Dante" di Tortona e "San Giorgio" di Novi Ligure; Don Carlo Cutarelli, persona semplice e gioviale, un “tuttofare” come amava definirsi; Fratel Adelmo Masi, presente nella curia generale ininterrottamente dal 1952: caro fratel Masi, sempre contento di fare contenti gli altri con qualche servizio! 

Ricordiamo anche le Piccole Suore Missionarie della Carità: Suor Maria Grażyna, Suor Maria Giuliana, Suor Maria Liberata, Suor Maria Gratia Crucis, Suor Maria Domenica, Suor Maria Celestina dell’Immacolata (Sacramentina), e inoltre i parenti, benefattori e amici defunti.

Tante persone muoiono nel nascondimento dopo aver collaborato per anni alla missione della Piccola Opera. Non manchi per loro la nostra preghiera. Tra tutte vorrei ricordare, quasi ad esempio, Francesca Montaiuti, laica missionaria orionina in Costa d’Avorio per molti anni. E’ morta un mese fa’ a Genova. Sul suo passaporto per il Paradiso, senza dubbio c’era scritto: ha servito i poveri.

San Luigi Orione, nel cui spirito tanti religiosi, suore e laici hanno imparato ad amare Gesù e a fare del bene ai poveri, sarà lieto di accoglierli e presentarli in Paradiso al Padre di ogni consolazione.

            Infine, un pensiero e una preghiera per tutti i nostri malati e anziani: trovino nel Signore risorto il conforto e la speranza che non delude e nel prossimo – in noi Confratelli per primi - quella carità concreta e amorosa che allevia la sofferenza e aumenta lo spirito di Famiglia.

           Vi ricordo tutti al Signore e auguro che su tutti si posi il sorriso benedicente di San Luigi Orione e della Santa Madonna.

Don Flavio Peloso, FDP

(Superiore generale)

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                                      APPENDICE

 

FEDELTÀ VOCAZIONALE E DEFEZIONI

  1. DATI E ORIENTAMENTI

Ho partecipato nel novembre scorso alla riunione semestrale dell’Unione Superiori Generali (USG). Il tema era quanto mai interessante: Fedeltà vocazionale  e  defezioni.[57] In preparazione a questo importante incontro di studio, l’USG aveva promosso un’indagine alla quale hanno collaborato una larga maggioranza delle congregazioni maschili (anche FDP) fornendo informazioni di segreteria poi impiegate nell’indagine (408 schede) relative al periodo 1990-2004 (15 anni). Ecco alcuni dati dell’inchiesta.

  • Le defezioni dei religiosi di voti temporanei o in formazione sono tra l’8 e 12% annuo. Dunque, nel giro di 5 anni, durata minima del periodo di formazione, si perdono attorno al 50% dei candidati. Nella nostra congregazione, la media annua delle uscite, negli ultimi 15 anni, è all’11,6 per cento.
  • Le defezioni dei religiosi di voti perpetui: trai sacerdoti la media annua è allo 0,4 e 0,5% e dunque escono il 2,5% dei sacerdoti in 10 anni; i fratelli abbandonano a un ritmo del 0,6 e 1%. Nella nostra congregazione, la media annua è allo 0,8%, includendovi sacerdoti e fratelli; ma negli ultimi 5 anni è salita all’1,2%.
  • L’età delle defezioni è soprattutto quella che va dai 31 ai 40 anni (37,8%) e dai 41 ai 50 anni (33,0 %). Il 42% degli abbandoni avviene nei primi 10 anni di professione perpetua. Ciò invita a porre attenzione al primo inserimento comunitario-apostolico e alla necessità di continuare l’accompagnamento e la formazione dei religiosi nei primi 10 anni di inserimento definitivo.
  • I motivi degli abbandoni sono soprattutto i problemi affettivi (43,3), collegati con altri problemi di cui sono causa e a volte effetto. Seguono poi i problemi psicologici (21,0) e d’immaturità  (21,3) che insieme formano il 41,3% dei motivi dell’abbandono: ciò interroga la selezione vocazionale e formazione iniziale. L’“insoddisfazione”  è indicata al 28,6; i “conflitti con i superiori” (17,1%) comprendono i conflitti con la comunità e la difficoltà a vivere insieme. L’incidenza di problemi di fede  è determinante per il 5,4.[58]
  • Qualità di vita prima di uscire: tra quelli che hanno abbandonato era giudicata scarsa la vita consacrata-voti (29,6%), la vita di preghiera (24,4%), l’attività pastorale (15,2), il senso di appartenenza (36,4). Per gli altri che hanno abbandonato era indicata come regolare o buona o anche molto buona. Quindi non se ne vanno solo i mediocri o i più deboli: “chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” (1Cor 10,12).

Mi sembra utile evidenziare qui alcune conclusioni e indicazioni pratiche fornite soprattutto dalla relazione di Fr. Lluìs Oviedo ofm.

 

Cosa si può fare?

Dai dati empirici e teorici possiamo dedurre che il fenomeno delle defezioni è pressoché inevitabile, esiste quasi una “selezione naturale” legata all’inconsistenza e al declino vocazionale di alcuni religiosi. La defezione non sempre è spiegabile e riconducibile a una causa-effetto; c’è la libertà personale e c’è il “mistero del male”: a volte, cade anche chi stava in piedi bene. Le statistiche mostrano che il numero delle defezioni si mantiene sostanzialmente costante negli anni, nelle diverse congregazioni e nelle diverse regioni.

Molte volte, come singoli o in riunioni, ci chiediamo: cosa possiamo fare? Non è per niente facile prevenire o evitare il flussi degli abbandoni. Un certo margine di perdita delle file di qualunque Congregazione è inevitabile. Ma qualcosa e molto si può fare. Dai risultati dell’indagine sono emerse alcune indicazioni.

  • Promuovere uno stile interno di vita religiosa in chiaro contrasto/alternativa con l’ambiente culturale secolaristico avverso alla fedeltà vocazionale e ai suoi valori. Va elaborata e sostenuta una sana contestazione critica allo schema socio-culturale dominante. Non si dovrebbe dimenticare che la vita consacrata è stata sempre di pochi (fermento, sale, radicalità evangelica) e alternativa (nella logica della separazione in vista della comunione) riguardo alle realtà sociali ed ecclesiali. Il rischio di infedeltà vocazionale aumenta quando ci si lascia troppo influenzare/omologare dai valori del proprio ambiente, spesso contrapposti alla radicalità evangelica che si vuole professare.
  • Incrementare il senso di eccellenza oggettiva della vita consacrata,[59] nella piena comunione ecclesiale, l’auto-stima come consacrati, l’identificazione gioiosa col proprio Istituto (carisma, missione, forma di vita, senso di famiglia, ecc.). Si tratta di favorire un ambiente della congregazione “più positivo”, una “misura alta di qualità religiosa”. La buona salute del corpo non evita l’insorgere delle infermità, ma le limita e ne aiuta il superamento.
  • Maggiore cura della dimensione affettiva. In molti casi si è osservato che gli abbandoni sono legati ad atteggiamenti ingenui, immaturi o carenti nel modo di vivere l’amicizia e i rapporti personali. Occorre favorire una migliore conoscenza e dinamica della propria affettività di consacrati, includendovi le risorse, i limiti e le attese.
  • Vanno governate e combattute le situazioni interne alla Congregazione che favoriscono il calo di qualità vocazionale a livelli sempre più bassi. Assieme alla promozione di una vita religiosa interna più forte e decisa, occorrono misure per combattere le inevitabili tendenze alla secolarizzazione interna e all’azione distruttiva dei profittatori, degli accomodati, dei “frati mosca” direbbe Don Orione.
  • Bene agire sulla promozione-reclutamento-formazione vocazionale. Le defezioni ci provocano a curare molto di più dell’azione vocazionale, con la speranza che – con un numero sufficiente di nuove e buone incorporazioni – l’inevitabile flusso di uscite non lasci un saldo troppo negativo quando si fanno alla fine i conti sulle forze presenti nella propria congregazione.
  • Qualificare la formazione iniziale. Lo studio delle statistiche mostra che qualche congregazione conosce una frequenza di abbandoni tra i formandi molto minore rispetto alla media. Avviene quando si attua un discernimento e selezione iniziale più esigenti e quando viene fornita una struttura di formazione (comunità, formatori, piano formativo) di buon vigore spirituale e comunitario.
  • Dare la priorità alla formazione permanente in quanto humus della formazione iniziale. La formazione iniziale dipende in massima parte dalla qualità di vita dei religiosi della Provincia. E’ la Provincia che forma. Si forma o si deforma per "contatto". Da qui la necessità che tutta la Provincia prenda coscienza di essere formatrice e faccia tutto ciò che è in suo potere per esserlo con la buona qualità di vita. Questo non sarà possibile senza un'opzione chiara e concreta in favore della formazione permanente.

 

  1. L’ABBANDONO, TRA COSCIENZA E LEGGE

Capita che sul tavolo del superiore generale – e prima ancora in quello dei provinciali - arrivano richieste di religiosi che chiedono l’esclaustrazione come uscita di congregazione temporanea, o la secolarizzazione come uscita definitiva. Capita che un confratello “in difficoltà” e che vuole uscire chiede un parere ad un suo confratello amico.

Che dire? Come valutare? Uscire dalla Congregazione e sciogliere i voti: è un diritto del religioso? è un dovere del superiore dare l’autorizzazione?

Sappiamo che dovere di un superiore (e di qualunque religioso) è favorire e difendere la fedeltà al vincolo sacro: ministero sacerdotale, voti religiosi.

Il superiore, se non ha la certezza di coscienza della gravità e “urgenza” delle motivazioni che determinano un abbandono, può dare opinione favorevole all’abbandono del sacerdozio e della consacrazione religiosa? In quali condizioni?

E’ un tema che con il mio Consiglio mi sono trovato ad affrontare. Riguarda anche i Consigli provinciali e in qualche modo tutti i religiosi.

Nelle nostre Costituzioni e Norme si parla di

  • permesso di assenza (N.83): “Il Direttore generale, col consenso del suo Consiglio, su richiesta della Direzione provinciale, può concedere ad un religioso, per giusti motivi, un permesso di assenza dalla comunità per non più di un anno. Se il motivo è una malattia o un'opera di apostolato da svolgere a nome della Congregazione o studio, perdurando tale motivo, il permesso può essere rinnovato”.
  • indulto di esclaustrazione (N. 86): “Il Direttore generale, col consenso del suo Consiglio, per grave causa può concedere ad un professo perpetuo l'indulto di esclaustrazione, tuttavia per non più di tre anni”. Questa disposizione riprende quanto è detto nel Codice di Diritto Canonico nei canoni 686-687.
  • indulto di lasciare la Congregazione (N. 87): “Un professo di voti perpetui non chieda l'indulto di lasciare la Congregazione se non per cause molto gravi, ponderate davanti a Dio; presenti la sua domanda al Direttore generale, il quale la inoltrerà alla Sede apostolica, aggiuntovi il voto suo e del suo Consiglio”. Si rinvia ai canoni 691-693.

            Le disposizioni sono abbastanza chiare. E’ il discernimento caso per caso, svolto comunitariamente – prima il Provinciale con il suo Consiglio, poi il Generale con il suo Consiglio e infine anche la Santa Sede - che permette di giudicare se è opportuno o meno concedere l’indulto.

            Mi sembra importante richiamare qui due considerazioni.

Il permesso di assenza e indulto di esclaustrazione vanno intesi come una deroga all’obbligo della vita comunitaria per motivi positivi (salute, studio, apostolato, ecc.) e dentro un contesto di comunione con il superiore e la congregazione. Non va inteso e utilizzato come una forma di allontanamento temporaneo dalla consacrazione e dai suoi obblighi, quasi una sospensione dalla vita consacrata o dalla propria appartenenza alla congregazione. Non è una via legale per un’uscita “dolce” dalla vita consacrata, preludio di un allontanamento definitivo. Ultimamente, si sono concessi molto più raramente tali permessi e indulti, e per motivi positivi (salute, apostolato, ecc.) e non come forma di separazione.

L’uscita di congregazione e lo scioglimento dagli obblighi dei voti – ottenuto con l’indulto - oggi viene visto soprattutto in chiave legale e meno in quella morale. Ma lasciare la fedeltà religiosa, prima che un problema legale e disciplinare, è un problema morale in rapporto a Dio a cui ci si è consacrati con vincolo sacro pubblico ed ecclesiale. Chi viene meno ai voti fa peccato. Devono esserci quelle “gravi cause” di cui parlano il Diritto canonico e le Costituzioni, riconosciute in coscienza prima  dal richiedente e poi dai superiori competenti (provinciale, generale, Santa Sede) per giustificare un’uscita.

Non sempre lasciare la vita religiosa e sacerdotale è una legittima “scelta” di un altro stato. Molte volte è semplicemente una defezione o, come con parola più forte, un tradimento della propria vocazione, una mancanza di fedeltà a Dio. Se così fosse riconosciuto dalla coscienza dell’interessato, egli deve rinunciare alla richiesta. Se così fosse riconosciuto in coscienza dai superiori, essi non possono dare giudizio positivo alla concessione dell’indulto.

 

Don Flavio Peloso, FDP

(Superiore generale)

 


[1] Nel nome della Divina Provvidenza, “Dare la vita cantando l’amore”, p. 82.

[2] Da discorso di don Orione a Campocroce, 22.7.1924, Parola III, 33s.

[3] Si veda più avanti Appendice: Fedeltà vocazionale e defezioni.

[4] F. Peloso – J. Borowiec. N. 22666: Francesco Drzewiecki, un prete nel lager, Ed. Borla, 1999; T. Kaczmarek – F. Peloso, Luci nelle tenebre. I 108 martiri della Chiesa in Polonia: 1939-1945, Ed. Michalineum, 1999.

[5] Il Notes di Drzewiecki e il Memoriale di Joseph Kubicki sono pubblicati in Francesco Drzewiecki, un prete nel lager, o.c., pp. 116-150 e pp. 151-170.

[6] La relazione in Aa.Vv., Religiosi nei lager, Atti del convegno, Torino, 14 febbraio 1997, Ed. Franco Angeli, Milano, 1999, p.70-106

[7] Solo a Dachau furono internati 2794 sacerdoti e religiosi di 21 nazionalità; vi trovarono la morte 1034 ecclesiastici, dei quali 868 polacchi.

[8] Simile esperienza e considerazione fece Viktor Frankl, grande maestro della psicanalisi moderna, che visse la terribile esperienza di internato nei lager di Auschwitz e di Turkheim. Egli aveva notato che i più resistenti, fra gli infelici che popolavano i campi di concentramento, erano quegli uomini che ancora avevano uno scopo da realizzare, una persona amata da raggiungere, per i quali cioè la vita conservava un significato: la presenza di un significato alzava la forza di sopravvivenza. Il filosofo F. Nietzsche sosteneva che chi ha un ‘perché’ per vivere, sopporta quasi ogni ‘come’. Viktor Frankl ne trovò la conferma nei lager. Anche Ignazio Silone ebbe a osservare: “In certi casi della vita si salva soltanto chi ha un figlio, chi ha un padre, o chi crede in una vita ventura”; lettera a Don Orione del 29 Luglio 1918, in G. Casoli, L’incontro di due uomini liberi. Don Orione e Silone, Jaca Book, Milano, 2000, p.118.

[9] Il sussidio ha per titolo “Avanti, guardando in alto, a Dio”. Fedeltà creativa alla nostra vocazione nell’amore di Dio; in “Atti e comunicazioni…”, 59(2005) n.217, pp.187-226.

[10]L'Instaurare omnia in Christo, che fu il grido dell'Apostolo S. Paolo ed è il programma della nostra Congregazione, dobbiamo cominciare da noi ad applicarlo; prima rinnovare noi in Cristo, per poi rinnovare  gli altri. Non rinnoveremo gli altri in Cristo, se prima in Cristo non avremo  rinnovato noi stessi nel suo santo amore, e con la sua santa grazia, che  certo non mancherà”; Lettere II, 56.

[11] Anche Maria, “umile serva del Signore” sperimentò il turbamento di fronte alla sua vocazione inaudita: “«Come è possibile?” (Lc 1,34).

[12] Celebrazione dell’inizio ministero petrino, omelia, Piazza San Pietro Domenica, 24 aprile 2005.

[13] Celebrazione eucaristica e insediamento sulla cathedra romana, Basilica di San Giovanni in Laterano, Sabato, 7 maggio 2005.

[14] Discorso alla manifestazione "Tanti cuori attorno al Papa, messaggero di pace" promossa dagli Orionini nell’Aula Paolo VI, 28 giugno 2005. Molto frequentemente, in incontri e discorsi, il Papa chiede preghiere con motivata e sincera convinzione.

[15] Ho conosciuto Benedetto XVI durante quei cinque anni in cui gli fui accanto nel lavoro quotidiano alla Congregazione per la Dottrina della Fede. Sapevo che questo era il suo atteggiamento intimo e trasparente. Non un panzer-kardinal, ma un credente, e per questo un forte e libero in Cristo.

[16] L’espressione è di Padre Fedele, un personaggio dei “Promessi sposi” di Manzoni, fatta sua e molto citata da Don Orione.

[17] CG 12, p.93.

[18] Aa. Vv. Sui passi di Don Orione. Sussidio per la formazione al carisma, Dehoniane, Bologna 1996, p.64.

[19] In Matthaeum X, 5; super “Ecce reliquimus omnia”.

[20] Udienza generale, 11 gennaio 2006, riportata per intero in questo fascicolo a p. .

[21] Scritti 58, 215.

[22] Scritti 15, 172; con Dio viene valorizzato “tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” (Fil 4, 8).

[23] Scritti 56, 115b.

[24] Benedetto XVI, nell’omelia per l’ordinazione di 15 sacerdoti, il 7 maggio 2006, commentando il Vangelo del “buon pastore” dove si dice che "Chi... sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante" (Gv 10, 1), ha detto: "Salire: - si può qui vedere anche l'immagine del carrierismo, del tentativo di arrivare "in alto", di procurarsi una posizione mediante la Chiesa: servirsi, non servire. È l'immagine dell'uomo che, attraverso il sacerdozio, vuole farsi importante, diventare un personaggio; l'immagine di colui che ha di mira la propria esaltazione e non l'umile servizio di Gesù Cristo. Ma l'unica ascesa legittima verso il ministero del pastore è la croce. È questa la vera ascesa, è questa la vera porta. Non desiderare di diventare personalmente qualcuno, ma invece esserci per l'altro, per Cristo”.

[25] A volte sui mezzi pubblici o per le strade capita di incontrare ragazzi che vanno o tornano dalle scuole: è palpabile il disinteresse di molti per la scuola. A volte, simile impressione si ha guardando la gente all’entrata o all’uscita di chiesa alla domenica. E’ solo colpa degli studenti? E’ solo colpa dei parrocchiani? Ci sono, molti professori che amano la loro materia e sanno farla amare. Ci sono molti sacerdoti che amano il Signore e il loro ministero e conquistano le anime. Si riesce a conquistare l’attenzione e il coinvolgimento degli altri se si è per primi interessati e appassionati di quello che si fa, si dice e si comunica. Il filosofo Hegel, nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia, osservava che «nel mondo nulla di grande è stato fatto senza passione».

[26] La sua espressione teorica ha radici nel “pelagianesimo”, una eresia cristiana del 5° secolo. Un certo spirito pelagiano si ripresenta anche nella cultura contemporanea, quando si esalta la volontà e l’autosufficienza umana, si pensa che non è necessaria la grazia di Cristo per vivere bene. Dio è lasciato nella penombra della coscienza, tra mille dubbi, tra qualche interrogativo che talora si affaccia nel silenzio, ma rimandato o rimosso. L’uomo vive senza relazione personale con Dio.

[27] Agostino, De praedestinatione sanctorum 3, 7.

[28] Queste parole forti devono farci salutarmene tremare, come pure quelle altre: “Il Signore ci giudicherà secondo le opere, e secondo la carità delle opere, perché anche le opere senza la carità di Dio, che le valorizzi davanti a lui, a nulla valgono”; Scritti 39, 80. In questo senso si veda la precedente Lettera circolare Quali opere di carità?; “Atti e comunicazioni…”, 69(2005) n.217, pp.111-130.

[29] Scritti 111, 21.

[30] Enciclica Deus caritas est, n.10.

[31] Regola non bollata (1221), XVII.

[32] Ai religiosi, 26.9.1937; Parola VII, 58.

[33] Anche Silone, “cristiano senza Chiesa e socialista senza partito”, mise in guardia il biografo Douglas Hyde: “Qualunque cosa facciate, quando scriverete di lui (Don Orione), vi supplico di non trasformare Don Orione in una specie di Beveridge cattolico . Sarebbe sminuirne la statura. Certo, si occupò di opere caritative, come molti altri, e anche di giustizia sociale. La sua forza eccezionale è riposta, però, nel fatto che in tutto ciò che faceva egli contava unicamente e completamente in Dio"; Il bandito di Dio, Ed. Paoline, Bari, 1960,  p.12”. William Beveridge (1879 - 1963), economista inglese. Legò il suo nome a un piano che prevedeva l'assistenza sanitaria gratuita e l'estensione della previdenza sociale ai ceti meno abbienti.

[34] Le più belle pagine di Don Orione, p.102.

[35] Scritti 52, 149.

[36] Lettere II, 466.

[37]Qui coepit se ductorem, coepit seductorem” (Chi sceglie sé stesso come guida sceglie un seduttore). Avere un “angelo spirituale” nel proprio cammino aiuta non solo il buon discernimento, ma anche la continuità del cammino.

[38] In Atti e comunicazioni della Curia generale LIV(2000), n.201, pp.3-19.

[39] Scritti 69, 312.

[40] Cfr Lc 10,38-42; Gv 11,1-44 e 12,1-11.

[41] La fune tripla, cioè formata da tre funi intrecciate tra loro, difficilmente si rompe. Il fratello che è aiutato dal fratello è come una città stabile. Scritti 81, 312; 57, 187. “Tutti per uno uno per tutti... funiculus triplex difficile rumpitur... Niente gelosie... niente censure e poi un gran manto di carità che tutto copra. Volerci bene nel Signore. Che la Congregazione sia una forza compatta e che l’intento più vivo e più forte dei nostri animi sia di voler diventare una forza, una grande forza nelle mani della Congregazione per essere poi una grande forza nelle mani della Chiesa. Questa bella unione c’è grazie a Dio e a costo di sacrifici dobbiamo mantenerla”; Riunioni p.80.

[42] Parola IX, 401.

[43]Don Bosco aveva di frequente sulle labbra questa espressione: Esto vir et non frasca; metà latino e metà italiano: Esto vir et non frasca! Nel nostro dialetto, essere frasca vuol dire essere uomini che si muovono ad ogni soffio di vento… Le frasche si agitano or di qua or di là… Esto vir et non frasca! Che voleva dire: sii uomo di carattere e non una banderuola”; Parola 11.10.1938; IX, 399.

[44] Scritti 57, 132.

[45] Scritti 57, 151

[46] Penso a chi dovrà tradurre questa parola in altra lingua… A Roma direbbero “Datte na mossa!”. Significa muoviti, svegliati, esci dal torpore.

[47] A Don Montagna, 6 febbraio 1930, 21, 155. Al chierico Quintiliani dice chiaramente: “Per vincere queste battaglie, è necessario esser generoso con Gesù Cristo Signor nostro; non languido, non tiepido, non indeciso, non volubile, non incostante, non pusillanime. No, mai pusillanime! La pusillanimità impedisce la vittoria! Non umano, non terreno, ma spirituale tanto da prendere altamente e fortemente il dominio su quanto resta in noi di umanamente basso e terreno”; Scritti 43, 177.

[48] Si può essere felici. Vita di Frate Ave Maria, Piemme, p.37.

[49] Significa proporre ideali, mete, imprese alte.

[50] Scrive Don Orione: “La S. Scrittura dice una gran cosa, cari miei, quando ci dice che la moglie di Lot, perché si fermò, e, invece di guardare avanti, guardò indietro, diventò una statua di sale. «Non progredi, regredi est». Io non voglio delle statue in Congregazione, ma dei vivi e che camminino in avanti, guardando in alto, a Dio!, Dal quale tutto dipende e ci viene ogni dono e aiuto. Vivere vuol dire espandersi: chi non guadagna, perde: chi non avanza, indietreggia”.

[51] Cammino di Perfezione, cap. 35.

[52] Cammino di Perfezione, cap. 29.

[53] A Gaetano Piccinini, 18 novembre 1922; Scritti 26, 173.

[54] Nel nome della Divina Provvidenza, p.120-121. Questa invocazione è posta a grandi lettere sull’urna del corpo di Don Orione, al santuario di Tortona.

[55] Cfr più avanti, a p. .. ..

[56] Cfr più avanti, a p. .. ..

[57] Per chi è interessato ad approfondire il tema segnalo gli Atti del convegno (in più lingue): Fedeltà e abbandoni nella vita consacrata oggi, USG – Litos, 2006.

[58] Nella statistica potevano essere indicati due principali motivi di abbandono; per questo la percentuale va oltre il 100%.

[59] E’ la coscienza di aver “scelto la parte migliore”. E’ un tema delicato da trattare e che ha bisogno di molte precisazioni. Ma questo è l'insegnamento della Chiesa che, a partire dal Concilio di Trento ha affermato la superiorità dello stato di verginità su quello del matrimonio e implicitamente dello stato religioso su quello laicale (Sessio XXIV, Canones de sacramento matrimonii, can.10, DS 1810), fino al Vaticano II che ha parlato esplicitamente del "superiore valore della vita consacrata per mezzo dei consigli evangelici" riconoscendo che "il raggiungimento della perfetta carità per mezzo dei consigli evangelici trae origine dalla dottrina e dagli esempi del divino Maestro (Perfectae caritatis, n.1). Evidentemente, l’eccellenza della vita consacrata è oggettiva, come via di sequela di Cristo, mentre quella soggettiva dipende dalla perfezione della carità dei singoli membri, a qualunque stato appartengano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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