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Messaggi Don Orione
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Nella foto: Don Orione benedice con il Santissimo, Tortona 1938.
Pubblicato in: Atti e comunicazioni 2012, n. 239, p.187-202.

Lettera Circolare del 27.12.2012. “Noi siamo i Figli della Divina Provvidenza che vuol dire i figli della fede”.

FIGLI DELLA FEDE

27 dicembre 2012

San Giovanni evangelista

Carissimi Confratelli

            Deo gratias!

Siamo nell’anno della Fede. “Noi siamo i Figli della Divina Provvidenza che vuol dire i figli della fede[1] e perciò siamo particolarmente interpellati. Vale per noi quanto Benedetto XVI ha detto nell’omelia di apertura del Sinodo dei Vescovi: “Se oggi la Chiesa propone un nuovo anno della fede e la nuova evangelizzazione è perché ce n’è bisogno” (7.10.2012).

Nel Consiglio generale abbiamo dedicato un tempo di riflessione per approfondire alcuni testi riguardanti l’anno della fede e la nuova evangelizzazione.

La fede ci apre al bene più grande che possiamo avere in Congregazione: la presenza di Dio e la sua Divina Provvidenza. Ed è anche il bene più grande che possiamo offrire come religiosi nell’apostolato.

Mettendomi a scrivere questa Circolare, ha cominciato a risuonarmi nell’anima quel ritornello di Don Orione: “Più fede, più fede, fratelli, ci vuole più fede![2] e i suoi tanti accorati appelli alla fede rivolti a noi religiosi.

            “La nostra Fede, fatta potente contro ogni battaglia, divenuta il più grande e divino conforto della vita umana, essa è la più alta ispiratrice di ogni valore, di ogni santo eroismo, di ogni arte bella che non muore, di ogni vera grandezza morale, religiosa e civile. (…) Se non vivremo di Fede e di Carità, di che vivremo noi, o miei figli? E come oseremo dirci ancora Figli della Divina Provvidenza, se non vivremo di Fede, di quella Fede grande che, occorrendo, trasporta le montagne?”.[3]

Pensando alla nostra condizione umana e ai nostri atteggiamenti nel vivere la fede mi sono venute incontro tre immagini, tre scene.

 

La vecchietta ceca di Trilussa

La prima immagine viene da una poesia del poeta romanesco Trilussa;  Giovanni Paolo I l’ha recitata a memoria e commentata in una delle poche e indimenticabili udienze del suo pontificato.

“Qui, a Roma, c'è stato un poeta, Trilussa, il quale ha cercato anche lui di parlare della fede. In una certa sua poesia, ha detto:
«Quella vecchietta ceca, che incontrai la sera che mi spersi in mezzo ar bosco,
me disse: - se la strada nun la sai te ciaccompagno io, che la conosco.
Se ciai la forza de venimme appresso, de tanto in tanto te darò na voce,
fino là in fonno, dove c'è un cipresso, fino là in cima, dove c'è una croce.
Io risposi: Sarà... ma trovo strano che me possa guidà chi nun ce vede...
La ceca, allora, me pijò la mano e sospirò: Cammina! Era la fede»”.

La nostra situazione è quella di un uomo che non sa, sperso, incerto e incapace di raggiungere la sua meta. La fede, è rappresentata da una vecchietta ceca; non vede quello che tutti vedono eppure conosce la mèta, sa la strada, e ci accompagna avanti.

Papa Luciani poi commentò: “Come poesia, graziosa; come teologia, difettosa. Difettosa perché quando si tratta di fede, il grande regista è Dio, perché Gesù ha detto: nessuno viene a me se il Padre mio non lo attira”.

Fuori di metafore e simboli, “Gesù è il centro della fede cristiana. Il cristiano crede in Dio mediante Gesù Cristo, che ne ha rivelato il volto. Gesù Cristo non è soltanto oggetto della fede, ma, come dice la Lettera agli Ebrei, è «colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (12,2)”.[4] “Gesù Cristo è il vero e perenne soggetto dell’evangelizzazione”, colui che sa e che accompagna nel cammino sconosciuto, “fino là in fonno, dove c'è un cipresso, fino là in cima, dove c'è una croce”. E oltre. “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12).

“Se ciai la forza de venimme appresso de tanto in tanto te darò na voce”: la nostra fortuna consiste proprio nel fidarci e nell’andargli appresso, attenti ai segni della Divina Provvidenza.

"Per le tue vie, conducici verso dove tendiamo, alla Luce in cui abiti".[5] “Beato l’uomo che trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio” (Sl 84, 6).

Sappiamo che le vie di Dio non sempre sono le nostre vie, ma le Sue vie sono sempre le migliori.In Te ogni nostra fiducia, o Santa Provvidenza del Signore, perché Tu ci ami assai più che noi amiamo noi stessi”.[6]

 

La donna del capitello di Nazaret

Una seconda immagine della fede che ha attirato la mia attenzione qualche tempo fa, viene da un bassorilievo scolpito in un capitello dell’antica basilica dell’Annunciazione a Nazaret, risalente all’epoca dei crociati in Terrasanta (sec. XII).[7]

Nel capitello della Chiesa è scolpita una scena in cui si vede una donna, con la corona sul capo, che cammina decisa. Tiene nella mano destra una croce astile mentre con la sinistra prende per il polso, energicamente, un altro personaggio (probabilmente Pietro o un discepolo) piuttosto impaurito e riluttante nel cammino. E si capisce perché: sui lati, ci sono due demoni minacciosi, armati di arco e spada, pronti ad attaccare.

In quella donna è personificata la Fede, o meglio, la Chiesa che guida il discepolo nella sequela e nella missione malgrado le difficoltà e le avversità rappresentate dai demoni in agguato.

C’è un evidente contrasto tra la figura della donna conduttrice, solenne, sicura, appoggiata alla croce come ad un pastorale, e l’atteggiamento di ripiegamento, di resistenza e timore dell’uomo condotto. La signora trae la sua forza dalla croce, tenuta con la destra, mentre con l’altra tiene per mano il discepolo per accompagnarlo e incoraggiarlo nel cammino. Insomma, appare chiaro che non è l’uomo che abbraccia la Fede/Chiesa, ma è la Fede/Chiesa che afferra lui e non lo molla di fronte alle difficoltà.

Il capitello presenta un ultimo dettaglio che merita di essere evidenziato: mentre il volto del discepolo condotto è ben delineato, quello della donna è appena abbozzato, intuibile ma è indefinito. La Fede ha sempre qualcosa di indescrivibile di non comprensibile.

 

   Presi per mano dalla Samaritana

L’immagine della Fede che tiene saldamente per mano l’uomo incerto e sperso nel cammino, richiama una terza immagine: la Samaritana del Vangelo. Dopo avere incontrato Gesù al pozzo, “lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?»”. Il Vangelo dice sobriamente che conoscenti e concittadini “uscirono allora dalla città e andavano da lui” (Gv 4, 1-42). Ma è facile immaginare la donna che, entusiasta, precede tutti nel cammino verso Gesù, prendendo per mano qualcuno più incredulo o attardato dicendogli: “Cammina”.

Sappiamo come finì quella giornata in Samaria. “Molti Samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregarono di fermarsi con loro ed egli vi rimase due giorni. Molti di più credettero per la sua parola  e dicevano alla donna: «Non è più per la tua parola che noi crediamo; ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».

In questo episodio ci sono tanti spunti di lectio e di meditatio che varrebbe la pena accennare. Mi limito a pensare di essere anch’io-noi presi per mano dalla Samaritana e convinti ad andare da Gesù.

Ci racconterebbe come è arrivata al pozzo con la brocca vuota e l'anima svuotata dalle sue carenze e dispersioni, dalle sue passioni e frustrazioni. Direbbe anche che questo non ha costituito ostacolo per Gesù. Egli non si è meravigliato di fronte alle sue resistenze e ai suoi affetti disordinati. L’ha ascoltata fino a farla giungere al suo "punto debole", sotto la crosta delle giustificazioni e delle ovvietà, a quell’apertura di sofferenza e di desiderio che è invocazione di umanità più vera e più bella: “Dammi sempre di quest’acqua”.  

Gesù ha lasciato che lei esprimesse i suoi pregiudizi, le sue resistenze e diffidenze, finché è emerso il suo anelito di vita, nascosto dentro al suo cuore, e allora egli ha "toccato" quel desiderio: "Se conoscessi il dono di Dio...". Senza questa storia di desideri e di insoddisfazioni, la donna samaritana non si sarebbe nemmeno accorta di avere ancora sete, un’altra sete, e di avere la possibilità di dissetarsi. Se ne sarebbe andata con la sua brocca piena di acqua e con il cuore vuoto e assetato.  

Dalla Samaritana dobbiamo imparare a tenere cari i nostri desideri e anche le nostre insoddisfazioni, sebbene ci fanno soffrire. Per noi religiosi, probabilmente sono stati alla base della nostra scelta di vita consacrata. Anzi è importante mantenerli sempre vivi, senza anestetici, perché lì, in questi “punti deboli” della nostra crosta di superficialità, si nasconde la nostra migliore "fonte di umanità" e basta un tocco di grazia per liberarla: "Se conoscessi il dono di Dio...".

E poi c’è ancora qualcosa. A noi, preoccupati della nuova evangelizzazione e di come essere incisivi nell’azione apostolica, la donna samaritana direbbe semplicemente che lei, divenuta discepola, è diventata ipso facto (si dice così) missionaria tra la gente della sua città. Non ha usato nessuna particolare strategia di convinzione. Ha fatto con gli altri quello che Gesù aveva fatto con lei: sapeva le insoddisfazioni e i desideri assopiti nel fondo di ognuno e ora sapeva che da questi "punti deboli" (gli psicologi le chiamano ferite) Gesù può far zampillare la vita bella, la grazia, l’acqua viva che il Signore ha messo dentro di noi, il suo Spirito Santo.

La Samaritana direbbe che nella missione di “portare a Gesù” più che i professionisti dell’annuncio riescono meglio le persone di ascolto; più di chi aiuta a ragionare o a gestire i conflitti, mette in movimento chi aiuta a scoprire, al di là delle apparenze, la sorgente di desiderio che è in ciascuno per collegarla alla “sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna”. Mantenere la sete, avere sete, e bere, bere, bere acqua pura che sgorga inesauribilmente dall’“amore di Dio riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo” (Rm 5,5) è l’unica condizione di felicità concessa su questa terra e poi nella vita eterna.

Anche noi “religiosi” non dobbiamo avere paura di riconoscere la sete che è in noi e che si manifesta in desideri e frustrazioni. La nostra condizione di consacrati non ci evita la miseria, i limiti e la precarietà. Prima che “donatori” siamo “assetati”. È la sete che ci porta a scoprire l’acqua per noi e per gli altri. Per questo, l’aver sete non è una disgrazia ma è una beatitudine. “Non estinguete mai la vostra sete. Così potrete continuare a bere alla sorgente della vita, senza smettere mai di desiderarla.  È la stessa sorgente, la fontana dell'acqua viva che vi chiama e vi dice: chi ha sete venga a me e beva”.[8]

E poi ricordiamoci che è Gesù ad avere sete di noi (“sitio”) e ha tanto desiderio di darci l’acqua che zampilla per la vita eterna. Ci aspetta. Ogni tempo e ogni posto è buono, in qualunque mezzogiorno della nostra vita quotidiana, anche quando siamo presi in piccole preoccupazioni, in litigi o in stanche aspirazioni. Egli si inserisce nella nostra routine quotidiana per chiederci inizialmente qualcosa di semplice (“dammi da bere”, “va’ a chiamare tuo marito”, “quanti pani avete”, “quanti pesci avete pescato”), fino a toccare il punto debole della nostra “crosta” e aprirvi la sorgente divina della nostra umanità.[9] Gesù dice alla samaritana che “l'acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14), cioè la sorgente è già dentro e lui può liberarla e farla scaturire oltre la crosta che la comprime: è lo Spirito Santo, lo Spirito d’amore, lo Spirito di figli di Dio.

Quando è libera questa fonte, capita anche a noi di non pensare più tanto alla brocca e di divenire testimoni, ipso facto, con il volto di gioia, perché dissetati di un’altra acqua: “La tua grazia vale più della vita!" (Sl 63,4).

 

Figli della fede, Figli dell’obbedienza

Non è mia intenzione in questa circolare fare una trattazione del tema della fede o della vita di fede, ma solo richiamare che la fede è la fonte del nostro bene personale, congregazionale e apostolico, e suggerire alcune scelte per coltivarla. Coltivare l’unione filiale con Dio è la condizione di ogni novità e della fedeltà. Dobbiamo smettere di concentrarci tanto sulla nostra brocca mai sufficiente per saziare o di andare a “scavarci cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l'acqua” (Ger 2,13). Beati noi, invece, se i desideri e i limiti ci costringeranno a gridare umilmente: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv 6, 68); “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla” (Lc 5,5); “Signore, dove possiamo comprare il pane per sfamare tanta gente?” (Gv 6,5).

“La fede è la risposta dell'uomo a Dio che gli si rivela e gli si dona, apportando nello stesso tempo una luce sovrabbondante all'uomo in cerca del senso ultimo della vita”.[10]

Nelle tre icone della fede sopra ricordate predomina l’atteggiamento umano di sequela, di docilità, di obbedienza: nell’uomo sperso di Trilussa, nel discepolo timoroso del capitello e nei samaritani che accorrono al pozzo.

L’umiltà obbediente è l’atteggiamento che più ci costa oggi, tanto più perché è contrario alla cultura dominante. Eppure, la vita di fede è più una grazia che una acquisizione; nella vita spirituale, più che conquistatori siamo conquistati, più che condurre siamo condotti. Per questo, Don Orione oltre a dire Figli della Divina Provvidenza significa Figli della fede aggiungeva che Figli della Divina Provvidenza significa Figli dell'obbedienza.[11]

L’Anno della fede ci chiede di riprendere con più decisione la strada della sequela di Cristo, di tornare ad essere discepoli e non padroni di noi stessi né della mésse che ci è affidata. Padrone di se stesso non è solo il religioso attivista euforico e protagonista che confida in se stesso, ma anche il religioso solitario e ripiegato che dispera di se stesso.

Per ravvivare in noi l'atteggiamento di fede e di discepolato, ci sono tre scelte pratiche che incidono sulla nostra mentalità e sul nostro comportamento.

 

  1. Coltivare una relazione abituale e vitale con la Parola di Dio, soprattutto mediante la meditazione quotidiana.

            “Luce ai miei passi è la tua parola Signore” (Sl 119, 105). La relazione con Dio, lo sappiamo bene, si realizza mediante la Parola, i Sacramenti e la Carità[12] verso i fratelli, “specialmente i più poveri e più abbandonati” aggiungerebbe Don Orione, con Gesù che gli fa subito un cenno di compiacimento a questa precisazione.

Sappiamo bene anche che c’è interdipendenza tra le tre modalità della nostra relazione con Dio. Occorre coltivarle tutte e tre. Mi limito qui a evidenziare l’importanza della relazione mediante la Parola di Dio.

Come la vita di fede inizia ex auditu, dall’ascolto, così essa si coltiva e cresce mediante la relazione personale abituale e vitale con la Parola di Dio. Mi permetto di insistere ancora una volta.[13]  È punto che verifico e raccomando anche nei colloqui personali confidenziali e di visita canonica. Senza dialogo con la Parola e dipendenza dalla Volontà di Dio finiamo per vivere in un protagonismo religioso egocentrico che è la morte della vita spirituale.[14] E’ una insidia che si insinua in noi religiosi inavvertitamente, poco alla volta, ma è pericolosa, devastante. E’ l’opposto di una vita da “figlio della Divina Provvidenza”.

Non basta dire: “Io sono religioso, parlo di cose religiose, io faccio tutto per il Signore”. Non basta avere forma religiosa, occorre avere relazione con Dio. Bisogna vivere in Dio, ricevere da Dio, fare la volontà di Dio.[15] La preghiera e la meditazione sono i punti di contatto imprescindibili da figlio a Padre. Si diventa, e si resta, figli della Divina Provvidenza nella preghiera e nella frequentazione della sua Parola.

Don Orione aprì la sua “scuola di santità” dicendo chiaramente e preliminarmente che  “Nostra prima Regola e vita sia di osservare, in umiltà grande e amore dolcissimo affocato di Dio, il Santo Vangelo".[16]  Ebbene, la meditazione quotidiana è il tempo quotidiano per “regolarci” sul Vangelo.[17]

Ci sono religiosi (tanti o pochi? sono sempre troppi) che trascurano la meditazione quotidiana. Mettiamoci a posto su questo punto costitutivo della nostra vita di religiosi.[18] È questione di vita o di morte “religiosa”. “Si capisce subito se uno ha pietà soda o una pietà di forma; se c’è sostanza o finzione. Fare bene, fare bene la Santa Meditazione. Bisogna essere impegnati a farla bene!”.[19]

La meditazione è atto personale e comunitario per alimentarci e sostenerci  vicendevolmente nella vita di figli della Divina Provvidenza!

Sappiamo come la pensava Don Orione: “Saltata la meditazione, è perduta la giornata”. E tirava le conseguenze pratiche: “Piuttosto chiudiamo i Collegi, se ci impediscono di fare la meditazione”.[20] Quante giustificazioni anche oggi: ho da celebrare alle Suore, in parrocchia andiamo a letto tardi, dobbiamo fare l’accoglienza ai ragazzi che arrivano presto a scuola, ecc. Don Orione, non ha chiuso collegi, piuttosto ha fatto regolare gli orari propri e quelli delle altre attività per salvaguardare “la prima ora tutta a Dio”.

La prima ora, tutta a Dio, alla presenza di Dio, impiegandola nella meditazione e nelle pratiche di pietà. E’ nel mattino, prima di qualsivoglia distrazione e comunicazione con gli uomini, che bisogna pregare e ascoltare Dio. La prima ora tutta a Dio!”.[21]

Ogni comunità riservi un’ora di primo mattino per le Lodi e la Meditazione.

Ci sono difficoltà da superare, certo, ma vanno superate per non mancare a questo importante appuntamento della giornata, perché “la giornata sarà come è stata fatta la meditazione”, “chi lascia la meditazione ha finito di vivere bene, di vivere da buon religioso e perderà la vocazione”. [22]

Senza il dialogo personale con la Parola di Dio – completo di ascolto, riflessione, preghiera e impegno – come avviene nella meditazione quotidiana, manca la cattedra più importante della pedagogia della santità di un religioso. La Parola accolta nel primo mattino è come “il seme nella terra, dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa” (Mc 4,27). Il religioso si ritrova più evangelizzato, più conformato a Cristo, più figlio della Divina Provvidenza.

 

  1. Vivere una obbedienza abituale e vitale nella comunità dataci da Dio

            Con l'obbedienza noi permettiamo a Dio di continuare a guidarci. Che conforto e forza poter dire “sono nelle mani di Dio, non potrei essere in mani più sicure”.[23] Questo significa anche mettersi nelle mani della Chiesa e nelle mani della Congregazione. Rifiutiamo la passività infantile; siamo persone intelligenti, che comprendono e dicono molte cose. Ma nello stesso tempo sappiamo e accettiamo di non essere noi soli autori della nostra storia.  

L'obbedienza ci mette nel dinamismo della figliolanza e del discepolato.

Mettersi nelle mani dei fratelli e dei superiori è mettersi nelle mani di Dio, con un atto di signoria e non di servilismo, come quello di Gesù: “Questo è il mio corpo dato per voi” (Lc 22,19); “Io offro la mia vita… Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso” (Gv 10,18).

Ricordiamo il voto di obbedienza fatto nelle mani del Superiore e il gesto di mettere le nostre mani nelle mani del Vescovo durante il rito dell’ordinazione sacerdotale. Tutto ciò è costitutivo della nostra identità e modalità di essere discepoli. Abbiamo volutamente rinunciato a un protagonismo in solitudine in favore del protagonismo in comunione con Dio e con i fratelli. Per questo, Vita consecrata afferma che “non c’è contraddizione tra obbedienza e libertà” (91b), anzi “l'obbedienza religiosa, lungi dal diminuire la dignità della persona umana, la fa pervenire al suo pieno sviluppo, avendo accresciuta la libertà dei figli di Dio” (Perfectae caritatis 14).

Ho ascoltato il teologo brasiliano João Batista Libânio osservare che, vicino al prototipo del religioso “docile” e del religioso “ribelle”, è entrato nella vita consacrata il religioso “liberal”, che conosce le norme, non protesta contro di esse e contro i superiori, ma segue il suo arbitrio e va per la sua strada.[24] È una defezione religiosa di fatto, anche se non anagrafica.

Dio ci prende per mano mediante la Chiesa, la congregazione, la comunità, il superiore (“Colui che obbedisce per primo”)[25] e ci porta avanti sulla strada della vita in comunione con lui. Certamente ci vuole il discernimento comunitario e l’obbedienza attiva e responsabile, ma alla fine uno sceglie se camminare da solo o se, per fede, si lascia  prendere “per mano” dal Signore, discretamente (“De tanto in tanto te darò na voce”) oppure energicamente (“me pijò la mano e sospirò: Cammina!”). Ognuno di noi può fare memoria di tempi e modi in cui si è lasciato condurre dal Signore. È la vita di fede.

Per noi religiosi ha particolare importanza il riferimento amoroso e filiale alle Costituzioni, perché esse “sono una regola di vita atta a promuovere in noi la assimilazione e la pratica del Vangelo, secondo la particolare intuizione del Fondatore. Esse ne precisano spiritualmente, prima ancora che giuridicamente, il concreto progetto religioso e sono l'espressione oggettiva del suo spirito” (art. 234).

Le Costituzioni indicano il sentiero sicuro percorso da San Luigi Orione, da generazioni di nostri Confratelli e su cui noi, oggi, possiamo camminare fruttuosamente nella via della santità e della missione. Per questo le sante regole vanno accolte e vissute con spirito di fede! “Leggerle e approfondirne il contenuto, alla luce dello Spirito, è nostro dovere e nostra gioia.[26] Metterle in pratica fedelmente e con amore deve essere il nostro impegno di ogni giorno: “la Congregazione si ama davvero e si ama tanto, se si amano davvero e se ne praticano con diligenza e buon spirito le sue regole”.[27]

 

  1. Alimentare l’atteggiamento di figliolanza con il Signore mediante la relazione con il padre spirituale.

La cultura attuale esalta l’individualismo autarchico e rifiuta qualsiasi tipo di dipendenza e di obbedienza: l’uomo – anche religioso - finisce rinchiuso nel suo atomo di soggettività.[28] Diventa più importante essere autonomi che essere in relazione, autoaffermarsi che amare. Ciò coinvolge anche la relazione con Dio e l’adesione filiale alla volontà di Dio, “sapientissima, santissima, ottima, fuori della quale non v’ha più bene, ma illusione di bene”.[29]

L'uomo che non ama il padre finisce per scegliersi un patrigno senza amore con cui sarà in sudditanza spersonalizzata, irrazionale e infantile. La parabola del figliol prodigo (Lc 15, 11-24) getta una luce di realismo sulle tante sudditanze dell’uomo moderno e sulle dipendenze anche di noi religiosi.

È l’amore del padre che ci tira fuori da noi stessi (e-ducere, educare). Vivere da figli porta a uscire da se stessi per porre il proprio epicentro nell’altro, in Dio, “come bimbo svezzato in braccio a sua madre” (Sl 131, 2). Credere espande la vita.

La relazione di figliolanza è la prima e la madre di tutte le altre relazioni. La figliolanza sviluppa la persona come essere-in-relazione. Se uno non sviluppa bene questa relazione non sviluppa bene nemmeno le altre, quella matrimoniale o quella apostolica per esempio.

Nella vita spirituale, soprattutto negli anni dell’età adulta, la relazione di “figliolanza” con il “padre spirituale” fa uscire dalla gabbia affettiva e razionale del proprio io. L’incontro con il “tu” di un uomo spirituale stimola la sintonia con il “Tu” di Dio, educa alla mentalità di fede, alla prospettiva di fede.[30] Inoltre suscita fedeltà senza della quale non c’è amore, ma individualismo. Il padre spirituale ricorda, aiuta e sostiene “il santo viaggio”, la relazione esistenziale di amore tra l’uomo e Dio.[31] È un “angelo custode” nel proprio cammino.

Il padre spirituale è un mediatore del nostro amore fedele di figli nei confronti di Dio. Egli può essere più o meno bravo, più o meno santo e “per questo l'anima che vuole progredire nella perfezione, deve” – secondo il consiglio di san Giovanni della Croce – “guardare attentamente in quali mani si mette perché il discepolo sarà uguale al maestro, il figlio al padre".[32]

Ce l’hai il padre spirituale?  Nelle lettere personali ai più diversi destinatari, Don Orione spesso chiede “Hai un buon confessore?”. Il “buon confessore” era un argomento ricorrente delle sue conferenze e “buone notti” dalle quali traggo qualche espressione.

Cercatevi un buon Confessore che vi conosca, che sappia chi siete, a cui aprire bene, e con umiltà grande, la vostra coscienza. Cercatevene uno di spirito, che si prenda cura della vostra salute spirituale” (21.9.1934).

“Dobbiamo scegliere un confessore stabile, non andare qua e là, come le farfalle; che sia un sacerdote degno, che sappia bene il fatto suo, che sia di spirito, che sia una vera guida e santa; sia un vero medico per sanare le nostre malattie morali e spirituali” (3.1.1939).

“Molto dipenderà, l’andar bene o male, dall’essersi scelto un buon confessore, una guida che vi formi una coscienza vera, retta, delicata, religiosa, che vi corregga, vi aiuti, non si accontenti di alzare la mano a dare delle assoluzioni, ma che sia veramente, medico spirituale della vostra vita. Sceglietevi un buon confessore! In lui abbiate la massima confidenza e fiducia. Guai se andate da un confessore di cui non avete fiducia e stima grande!” (25.10.1939).

“Si conosce molte volte se uno va da un confessore che prende in mano l’anima, o se va a zonzo senza avere un padre che lo conforti, e, occorrendo un maestro, che lo illumini e lo scuota!” (25.10.1939).

“Vedete: io lo so che devo essere un sacerdote a posto, un sacerdote degno. Eppure ogni qualvolta mi inginocchio davanti al mio Padre Confessore, che è un po’ più giovane di me, ho bisogno di sentirmelo dire che devo dare buon esempio, che non basta predicare bene ma bisogna vivere bene, che è necessario edificare il prossimo col buon esempio” (5 gennaio 1940).

Queste espressioni di Don Orione hanno una nuova urgenza nella cultura attuale.

Al riguardo, ascolto ottime esperienze ma anche serie difficoltà. In molti luoghi, non c’è nemmeno tanta possibilità di scelta. Quando ci siano i requisiti minimi di sapienza, di rettitudine spirituale, di disponibilità relazionale, è meglio avere il padre spirituale possibile piuttosto che restare soli nella vita spirituale. Ciò perché avere un “padre spirituale” aiuta a vivere la figliolanza spirituale nella relazione con Dio. Questo è il primo e fondamentale frutto della relazione con il “padre spirituale”. Poi vengono anche altri buoni frutti quali il discernimento, il consiglio, l’aiuto, la correzione, la consolazione, ecc.[33]  Ma senza un padre spirituale c’è il pericolo di “restare in se stessi,[34] nell’idealismo e nell’autismo spirituale.

Per questo “non solo durante gli anni della formazione iniziale, ma anche in seguito, il religioso si fa accompagnare da una guida spirituale con la quale prepara e verifica il suo progetto personale. È compito del superiore provinciale aver cura che nessuno rimanga solo nel suo itinerario spirituale”.[35]

Le Costituzioni indicano la “direzione spirituale” come un “mezzo ordinario” della formazione continua del religioso (art.111), richiamato anche al n.5 dell’ultimo Capitolo generale. Don Pensa definiva la direzione spirituale “regola prossima di santità”, “da praticare con profondo spirito di fede. Fare diversamente sarebbe condannarsi all’inerzia spirituale od esporsi al pericolo di camminare fuori strada”.[36]

La relazione filiale con la Parola di Dio, con la Comunità e con il Padre spirituale sono tre scelte pratiche per ravvivare in noi l'atteggiamento di fede e di discepolato di Figli della Divina Provvidenza.

 

NOTIZIE DI FAMIGLIA

Al termine dell’anno 2012, ci sono stati alcuni eventi-notizie di notevole importanza sui quali richiamo l’attenzione.

Riconoscimento canonico del Movimento Laicale Orionino

Il 20 novembre, è stato reso pubblico il Decreto con cui la Congregazione per la Vita Consacrata ha riconosciuto il Movimento Laicale Orionino come Associazione pubblica di fedeli laici.

E' una data storica e di grande rilevanza per tutta la Famiglia Orionina, che si va ad aggiungere a quella del 20 novembre 1954, approvazione pontificia definitiva dei Figli della Divina Provvidenza, a quella del 6 marzo 1965, approvazione definitiva delle Piccole Suore Missionarie della Carità, a quella del 13 maggio 1997 dell’approvazione dell’Istituto Secolare Orionino. Il Movimento Laicale Orionino è stato riconosciuto tramite la Congregazione per la Vita Consacrata in quanto è una componente della Famiglia carismatica già qui approvata.

Da sempre nella nostra Famiglia religiosa i laici sono stati al nostro fianco ma, in quanto movimento ecclesiale, è un frutto della stagione seguita al Concilio Vaticano II.

Oggi, il Movimento Laicale Orionino è presente ove è presente la Famiglia Orionina, in oltre 30 nazioni. Il riconoscimento richiede anche a noi religiosi più capillare impegno per la crescita numerica e qualitativa del MLO. Qualcuno dice ancora di non conoscere cos’è il MLO. Conosce chi ama. Per divulgare l’identità e l’organizzazione del MLO c’è in particolare la Carta di comunione e, ora, lo Statuto riconosciuto ufficialmente dall’Autorità della Chiesa.

Avanti! In ogni casa e località in cui è presente la Famiglia Orionina dobbiamo aiutare il formarsi di uno o più gruppi orionini coordinati nel MLO. Il MLO crescerà e sarà una grande forza di bene orionina nel mondo. Diamo sostegno attivo e rispettiamone l’autonomia organizzativa.

Desidero ringraziare tutti quanti in questi ultimi 20 anni si sono impegnati veramente per offrire alla Chiesa questo nuovo soggetto di presenza e apostolato orionino. Pensiamo a Don Roberto Simionato, a Don Vincenzo Alesiani, Fr. Jorge D. Silanes, P. Eldo Musso, Suor M. Ortensia Turati, Suor M. Irene Bizzotto, Suor M. Mabel Spagnuolo, Suor M. Priscila Oliveira, Suor M. Gabriella Lisco e l’attuale Suor Maria Bernadeth. Ringraziamo anche i primi responsabili del MLO: Sig. Giovanni Marchi, Sig. Miguel Esser e Sig. Javier Rodriguez Lopez e tutti quanti si sono sempre impegnati a livello territoriale. Anch’io, personalmente, considero e ricorderò la promozione della vocazione laicale orionina e del MLO come uno dei frutti belli cui la Provvidenza ha voluto collaborassi.

La beatificazione di due martiri orionini spagnoli

L’altro evento importante di fine anno 2012 è stata la pubblicazione del Decreto che riconosce “il martirio dei Servi di Dio Riccardo Gil Barcelón, sacerdote, e Antonio Arrué Peiró, postulante, della Congregazione della Piccola Opera della Divina Provvidenza, uccisi, in odio alla Fede, a Valencia (Spagna) nel 1936 (20 dicembre 2012).  Si giunge così alla solenne celebrazione della Beatificazione che è fissata al 27 ottobre prossimo, a Tarragona, in Spagna.

Il Decreto giunge a conclusione di un lungo iter iniziato a Valencia (Spagna) ancora nel 1962 e che ebbe per promotori della raccolta di notizie e di informazioni i nostri Don Lorenzo Nicola e Don Amerigo Bianchi. Varie persone vi collaborarono, penso a Don Terzi, Don Agostini, P. José Paris; e anch’io, come postulatore, ho dato un contributo per la elaborazione della Positio in base alla quale è stato emesso il giudizio di Teologi e Cardinali che ha portato al Decreto.

Il postulatore, Don Aurelio Fusi, è in contatto con gli altri postulatori delle cause di Martiri spagnoli e con la Conferenza Episcopale Spagnola che sta programmando la celebrazione della Beatificazione a Tarragona, il 27 ottobre 2013.

Cerchiamo di profittare tutti, ovunque, di questa grazia: studiando e divulgando la conoscenza dei due Martiri, organizzando eventi e meditando gli esempi di questi due “campioni della fede e della carità”.

Ci rallegriamo che altri due nostri Confratelli, cresciuti alla scuola di santità di Don Orione, siano giunti agli onori degli altari. Per noi è un appello alla santità.

Il nuovo Consigliere generale

In novembre, il Consiglio generale è stato reintegrato nella sua completezza con la nomina e l’arrivo del nuovo consigliere Pe. Joâo Batista de Freitas. Egli ha assunto l'animazione della "formazione iniziale" e delle "missioni".

Don Achille Morabito, subentrato come vicario generale, continua nei precedenti incarichi, lascia la "formazione iniziale" e assume la "formazione permanente"".

Stampato il nuovo testo delle Costituzioni e Norme

A fine novembre, abbiamo avuto tra le mani, nella versione tipica italiana, il nuovo testo delle Costituzioni e Norme che presenta alcune modifiche rispetto all’edizione precedente del 1988 che, a sua volta, integrava nel testo del 1982 alcune direttive del nuovo Codice di Diritto Canonico (1983). Le modifiche erano state decise nel XIII Capitolo generale (Ariccia, 2010) e riguardavano alcuni pochi contenuti e adeguamenti alla terminologia corrente.

La revisione del testo è stata seguita dal Consiglio generale e curata, in particolare, da Don Aurelio Fusi, procuratore generale. La Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, ha approvato il nuovo testo con due successive lettere: la prima del 18 giugno 2011, con alcune osservazioni, e la seconda dell’11 aprile 2012, con l’approvazione definitiva. Ogni Provincia deve provvedere la traduzione nella propria lingua che dovrà essere approvata dal Superiore generale.

Ora, leggerle e approfondirne il contenuto, alla luce dello Spirito, è nostro dovere e nostra gioia (cfr Cost 234). Ogni comunità deve farne “lettura e  riflessione” e “periodiche revisioni di vita” (norma 232) come anche ci chiede l’ultimo Capitolo generale: la lettura quotidiana (decisione 13) e l’impegno di interiorizzazione (Linea 18).

Guardando avanti

Nell’anno 2013, ci aspettano alcuni importanti avvenimenti comunitari di congregazione: 1) nel primo semestre ci sarà la visita canonica nelle Province Madre della Divina Provvidenza, N. S. di Czestochowa, N. S. del Pilar, N. D. d’Afrique, Mother of the Church e Case dipendenti dalla Direzione generale; 2) le assemblee di verifica provinciali (nel primo semestre) e generale (dal 13 al 20 ottobre ad Aparecida - Brasile); 3) l’Anno missionario orionino, che inizierà ad Aparecida il 20 ottobre e terminerà l’8 dicembre 2014, nel centenario della partenza dei primi missionari dall’Italia al Brasile.

La comunione nella preghiera

Raccomando alle vostre preghiere i carissimi confratelli: P. Alejandro Marcos Soulas, Don Sergio Stoppani, Don Clemente Perlo, Don Angelo Pasinato, P. Tomás Mendiguchia (Aggregato), Don Mario Scalco e Don Mario Sergenti, che il Signore ha chiamato a sé in questi ultimi quattro mesi.

Ricordiamo nel suffragio anche le nostre suore: Sr. Maria Michelina, Sr. Maria Paolina del SS.mo Sacramento, Sr. Maria Brigida, Sr. Maria Ana, Sr. Maria Fortitudo Crucis, Sr. Maria Samuela; Maria José Aeroviegas dell’ISO.

Il papà di P. Raúl Trombini, del Ch. Ivanildo Maciel Ferreira, di Don Giuseppe Testa, di Pe. Valdemir Luiz De Bona e di Pe. Luiz Carlos De Aguiar Gregorio.

La mamma di P. Cristian Jesús Ducloux, di P. Robert S. Branicki, di P. Julio Antonio Robledo, di Don Agostino Gennari, di P. Basile Aka e di Don Ugo Bozzi.

Il fratello di Pe. Arlindo De Sales, di Pe. Gil Guadalupe Rodrigues, di Fr. Dante Andrada, di Don Fioravante Agostini e di Don Luigi Fiordaliso (eremita).

La sorella di Don Pietro Donzelli e Suor Anna Maria delle Figlie di San Camillo, sorella di Don Severino Didoné.

Affidiamo alla divina misericordia tutti i nostri Amici, Benefattori, Ex Allievi defunti che contribuirono al bene della Piccola Opera. In particolare Mons. Ambroise Madtha, Nunzio in Costa d’Avorio, Mons. Mekaeel Al-Jameel, parente del nostro P. Hani Al-Jameel e Don Domenico Gallizzi. Il Signore doni loro il suo eterno Amore.

Un pensiero e una preghiera speciale anche per tutti i malati della Famiglia orionina: il Signore conceda loro di accettare ed offrire la sofferenza e i loro problemi a Gesù “per completare quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

Vostro fratello e padre in Cristo e in Don Orione

 

Sac. Flavio Peloso, FDP

(superiore generale)

 


[1] Parola VIII, 49. Tra i tanti testi in cui Don Orione esprime questa identificazione, ne riporto tre degli ultimi mesi della sua vita.  “Figli della Divina Provvidenza sono e significa figli della fede. Sarebbe contraddittorio chiamarsi Figli della Divina Provvidenza e non sentire profondo il sentimento della fede”; 31 dicembre 1939, XI, 339. “Noi, Figli della Divina Provvidenza, dobbiamo vivere di fede: sarebbe ironia chiamarsi  Figli della Provvidenza e non vivere di fede. Ma non una fede morta, blanda, una fede tarda, una fede tiepida, ma viva, ma fervida, ma operosa!”; 11 gennaio 1940; XII, 34. “I Figli della Divina Provvidenza devono essere forti e intrepidi, in tutto, ma specialmente nella fede, nello spirito di sacrificio, occorrendo, fino alla morte, fino al martirio, fino a fare della nostra vita, ostia viva a Dio e olocausto a Dio e alla Chiesa”; 6 marzo 1940; XII, 132.

[2] Si legga il testo in Spirito di Don Orione VI, p.42-45.

[3] Si veda la meravigliosa “lettera della fede” del 24.6.1937, scritta da Don Orione navigando sul fiume Paranà, in Lettere II, 453-461. È una lectio divina su Ebrei 11.

[5]Per tuas semitas duc nos quo tendimus ad Lucem quam inhabitas”; dall’inno Panis angelicus.

[6] Scritti 90, 271.

[7] Ora si trova nel museo di Nazaret, ricavato nel palazzo vescovile.

[8] Dalle Istruzioni di San Colombano, Ufficio delle letture, mercoledì 21ma settimana.

[9] San Basilio osserva: “L’amore di Dio non è un atto imposto all’uomo dall’esterno, ma sorge spontaneo dal cuore come altri beni rispondenti alla nostra natura. L’amore di Dio non deriva da una disciplina esterna, ma si trova nella stessa costituzione naturale dell’uomo, come un germe e una forza della natura stessa. Lo spirito dell’uomo ha in sé la capacità ed anche il bisogno di amare”; Ufficio delle letture, martedì  della prima settimana del tempo ordinario.

[10] E’ la definizione della fede data dal Catechismo della Chiesa Cattolica (n.26); invito a leggere tutto il bel capitolo “Io credo”, n. 142-165.

[11] Lettere II, p.166. Cfr. la "Circolare sull'obbedienza" in Lettere  II, p.153-175. Si veda il capitolo “Obbedienza religiosa” delle nostre Costituzioni e “Obbedienza di figli” in Sui passi di Don Orione, cit., p.115-122.

[12] “L'intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio (kerygma-martyrìa), celebrazione dei Sacramenti (leiturgìa), servizio della Carità (diakonìa). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro”; così Benedetto XVI in Deus caritas est, 25. Nel documento Intima Ecclesiae natura,dell’11.11.2012, Benedetto XVI ha tradotto in legge ecclesiastica le esigenze dell’esercizio della carità.

[13] Cfr le Circolari Colui che obbedisce per primo. Il servizio dell’autorità: Atti e comunicazioni 2006, n.220, p.107-122, e Pedagogia della santità: Atti e comunicaz ioni 2008, n.225, p.3-21.

[14] “Obbedire («ob-audire») nella fede è sottomettersi liberamente alla parola ascoltata, perché la sua verità è garantita da Dio, il quale è la verità stessa. Il modello di questa obbedienza propostoci dalla Sacra Scrittura è Abramo. La Vergine Maria ne è la realizzazione più perfetta”; Catechismo della Chiesa Cattolica n.144.

[15] L’io debole è innanzitutto debole di relazione con Dio. Cfr Circolare Io debole servitore di Dio: Atti e comunicazioni 2006, n.219, p.3-24.

[16] Lettere di Don Orione, II, 278. Sul rapporto di Don Orione con la Parola di Dio si veda l’Introduzione a San Luigi Orione. Meditazioni sul Vangelo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, p. 23-41.

[17] Uso questo termine perché indica la forma concreta stabilita dalle nostre Costituzioni per la relazione con Dio mediante la Parola. Evidentemente, vi sono anche altre forme e tempi, come la lectio divina comunitaria, l’incontro con la Parola nella liturgia.

[18] Costituzioni 72, 76, 111; Norma 50.

[19] Parola III, 64.

[20] Riunioni, p.111.

[21] Lettere I, 451.

[22] Cfr Circolare Pedagogia della santità: Atti e comunicazioni 2008, n.225, p.14-16.

[23] Scritti 41, 155; era questa una espressione ricorrente nella parola di Don Orione: “Sono nelle mani di Dio, sia fatto di me tutto quello che piace a Dio!” (31, 152); “è tutto il Signore che fa, ed io non sono che un povero straccio nelle mani della Divina Provvidenza” (105, 38).

[24] Al Congresso internazionale della Vita Consacrata (Roma, 2004) tenne una relazione su Impatto della realtà socio-culturale e religiosa sulla Vita Consacrata nell’America Latina. Ricerca di risposte, testo ciclostilato, Roma 2004, 10. Circa la tentazione soggettivistica della propria realizzazione, si veda Faciem tuam 3e, il documento sul servizio dell’autorità e l’obbedienza. Quando il criterio dell’autorealizzazione è assolutizzato, ci si incammina verso la perdita della relazione con Dio e dell’appartenenza alla comunità; Far crescere la comunità che ci fa crescere: Atti e comunicazioni 2006, n.221, p.269-290.

[25] Si veda la Circolare Colui che obbedisce per primo. Il servizio dell’autorità: Atti e comunicazioni 2006, n.220, p.107-122.

[26] Art .234. Ogni comunità deve farne “lettura e  riflessione” e “periodiche revisioni di vita” (norma 232). L’ultimo Capitolo generale ha osservato che le Costituzioni “appaiono poco conosciute, non sufficientemente studiate e assimilate” (n.47) per cui ne chiede la lettura quotidiana (decisione 13) e l’impegno di interiorizzazione (Linea 18).

[27] Testo in Lettere II, 262, riportato nell’art. 234 delle Costituzioni.

[28] “L'interesse egoistico, singolo, il fatto casuale, il particolare angusto, l'atomismo nella vita sono l'ultima parola della civiltà occidentale”; V. Solov’ev, citato da M. I. Rupnik in Nel fuoco del roveto ardente, Lipa 2003, p.80.

[29] Scritti 55, 13.

[30] Il termine padre spirituale viene dalla tradizione cristiana e risulta più ricco e completo di altri termini che indicano una funzione particolare, come per esempio direttore spirituale, maestro, guida, consigliere, accompagnatore spirituale. Certamente, un padre svolge anche le funzioni di guida, di consigliere, di accompagnatore, ma egli è essenzialmente uno che fa crescere la vita, è un autore (da augeo, accrescere).

[31] La Regola di San Benedetto inizia con le famose parole: “Obsculta, o fili, praecepta magistri. Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno”.

[33] C’è una ripresa di attenzione sul ruolo dell’accompagnamento spirituale in convegni, corsi di formazione per l’accompagnamento spirituale, studi e pubblicazioni. Si veda “Paternità spirituale: un cammino regale per l’integrazione personale” di M. I. Rupnik in Nel fuoco del roveto ardente, Lipa 2003, p.74-111.

[34] Cfr. Congr. per la Dottrina della Fede, Alcuni aspetti della Meditazione cristiana, 1989, n.19.

[35] CG 12, decisione 22. “Qui coepit se ductorem, coepit seductorem” (Chi sceglie sé stesso come guida sceglie un seduttore). Avere un “angelo spirituale” nel proprio cammino aiuta non solo il buon discernimento, ma anche la continuità del cammino.

[36] “La direzione spirituale in “Sarà lampada ardente”. Scritti di Don Carlo Pensa, Tortona 1987, p.202-205.

 

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